IN PRISON MY WHOLE LIFE
 

recensione in prison my whole life

 
La voce dei senza voce, il ragazzo simbolo del movimento contro la pena di morte o semplicemente un caso di coscienza. Tutto ciò è Mumia Abu Jamal, giornalista afro-americano di Philadelphia. Da 25 anni è un “dead man walking” che riesce a destare interesse trasmettendo settimanalmente in diretta dal braccio della morte. La sua vita va in mille pezzi una notte del 9 dicembre 1981, su una strada desolata della “Città dell’amore eterno”. Incriminato per l’omicidio dell’agente di polizia Daniel Faulkner, Jamal ha sempre respinto il capo d’imputazione pendente a suo carico proclamandosi innocente. Nelle stesse ore in cui il cronista veniva bloccato dalle forze dell’ordine, ad Islington (Londra) nasceva William Francome. L’esistenza di Francome è un monito, rappresenta metaforicamente la vista materiale dello scorrere del tempo,  
 
una vita che per Jamal è trascorsa al di là delle sbarre, aspettando il giorno della scarcerazione o della pena capitale. In prison my whole life ambisce provvidenzialmente a tracciare la parabola vitale di Mumia Abu Jamal, ricostruendo tassello dopo tassello tutte le fasi della sua condanna. Si parte così da un processo farsa, in cui sul piatto della giustizia pesa come un macigno l’attivismo politico dell’imputato (ex  
membro delle Black Panther), per giungere ad innumerevoli irregolarità giudiziarie fra cui: una giuria scelta su base razziale, affermazioni discriminatorie di un magistrato e fasulli testimoni a discarico. Attenzione: per tutta la durata della pellicola la persona di Mumia Abu Jamal sarà assente- tranne per alcune foto risalenti agli anni ’90- oscurata a causa di una legge iniqua che vieta di riprenderlo. L’intenso e sconvolgente documentario diretto da Marc Evans e scritto dallo stesso William Francome riesce a porre in evidenza una storia che, almeno in Italia, molti ignoravano. Ma va oltre. Facendo uso di una grafica accattivante, l’opera desidera tracciare le coordinate spazio-temporali e il contesto socio-politico della nazione americana a partire dagli anni ’70 fino ai nostri giorni. La realtà USA viene smembrata e ricucita alla ricerca di quelle contraddizioni e antinomie, che si fa specie possano sussistere in un paese eletto culla della democrazia. Il sogno a stelle e strisce si offusca all’ascolto delle testimonianze esposte da nomi eccellenti di commentatori, artisti e politici, del calibro di Noam Chomsky, Steve Earle, Alice Walzer, Mos Def, Angela Davis e Snoop Dogg. Tuttavia il problema è alla radice ovvero nel “complesso carcerario-industriale” (parole della Davis) invischiato nella logica del sistema correzionale, secondo cui lo Stato può arrogarsi il diritto divino di decidere della vita di un essere umano. Presentato in anteprima nella sezione Extra della Festa del Cinema di Roma, il lungometraggio si fregia inoltre del supporto e patrocinio di Amnesty International che lo ha definito “un contributo importante al dibattito sulla pena di morte”.

(recensione di Maria Cristina Caponi )


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