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recensione il
vento fa il suo
giro
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Cosa deve fare un
regista esordiente
per vedere distribuita
la sua opera prima,
se non ha a disposizione
né grandi mezzi
economici né
di conseguenza nomi
altisonanti da esibire?
Potrebbe innanzitutto
fare un bel film,
anzi un grande film,
uno di quelli che
miracolosamente sembrano
non avere nulla dell’incertezza
che si potrebbe attribuire
ad una mano inesperta,
di quelli profondi
e complessi senza
che questo significhi
tolgliere qualcosa
alla leggerezza della
spontaneità
dell’ispirazione.
Ma potrebbe non bastare.
Potrebbe farlo partecipare
ai festival cinematografici
di mezzo mondo, collezionando
una decina di premi,
tra primi posti, menzioni
speciali e premi della
critica (fra i quali:
Bergamo Film Meeting
– premio Miglior
Film; Lisbon Village
Film Festival - premio
Miglior Film; Festa
del Cinema di Roma
– Premio |
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Speciale
etc
etc…).
Ma potrebbe
non
bastare.
Potrebbe
trovare
il sostegno
di un
noto
critico
cinamatografico
che
lo vede,
ne comprende
il valore
e lo
sponsorizza
(artisticamente).
Ma anche
questo
potrebbe
non
bastare.
Risultato:
dopo
due
anni
dalla
sua
realizzazione
"Il
vento
fa il
suo
giro"
è
ancora
un film
praticamente
invisibile,
contro
cui
ci si
deve
imbattere
per
puro
caso,
nonostante
tutti
i riconocimenti.
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Prodotto da
due piccole
case bolognesi,
l’Aranciafilm
e la Imago
Orbis, e diretto
da Giorgio
Diritti, giovane
autore e regista
fattosi le
ossa come
assistente
di Pupi Avati,
con, al suo
attivo, già
numerosi documentari
e cortometraggi,
"Il vento
fa il suo
giro"
è un
film che a
raccontarlo
a parole perde
gran parte
del suo fascino,
un po’
come quando
si tenta di
parafrasare
una poesia.
Quindi, a
scanso di
equivoci il
consiglio
è preventivo:
prendete queste
parole per
quello che
sono e se
potete andatelo
a vedere!
L’azione
si svolge
a Chersogno,
piccolo villaggio
delle Alpi
Occitane,
dove giunge
un ex professore
francese un
po’
burbero che
decide di
trasfercisi
con la famiglia
per fare il
pastore. Ben
accolto inizialmente,
poco alla
volta però
la situazione
si farà
sempre più
difficile,
tra incomprensioni,
rigidezza,
l’ostilità
della popolazione
locale. Parlato
in parte in
lingua d’oc,
ciò
non deve spaventare,
perché
l’alone
di elitarismo
da piccolo
film d’essay
è solo
apparente.
In verità
non esiste
nulla di più
popolare e
verace, con
la cinepresa
che affonda
in una realtà
locale che
più
locale non
si può,
soffermandosi
sugli oggetti,
edifici abbandonati,
facce segnate
dalle rughe,
interni rischiarati
da un fascio
di luce che
filtra da
una finestra
socchiusa.
Aria di abbandono,
di polvere
depositata
da anni, di
odore di muffa
e umidità
che impregna
gli ambienti.
Sono sensazioni
concrete,
quasi tattili
quelle che
Diritti riesce
a trasmettere
utilizzando
il puro e
semplice linguaggio
cinematografico.
E sorprende
l’uso
che ne sa
fare in funzione
semantica,
nella scansione
dei tempi,
nell’impaginazione
narrativa.
Gli bastano
un paio di
inquadrature
per raccontare
un mondo di
sentimenti
e sensazioni.
Quando il
forestiero
giunge sembra
che questi
luoghi riprendano
vita dopo
un sonno di
decenni, come
un vento rigenerante
e salvifico.
Ma le novità
spaventano
e lo imparerà
a sue spese.
Sorprende
ancora di
più
come un localismo
tanto esasperato
sappia diventare
metafora di
un problema
di stretta
attualità
com’è
il rapporto
con la diversità,
con lo straniero,
l’integrazione
e l’intolleranza.
Ma non solo.
Perchè
da metafora
dell’oggi
il film si
fa metafora
universale
sulla natura
umana, senza
tempo e senza
spazio. La
paura del
diverso non
riguarda solo
gli anni 2000
e diverso
non significa
solo straniero
o extracomunitario.
Diverso è
tutto ciò
che non è
uguale a noi
e per questo
ci toglie
certezze,
ci costringe
a pensare,
a riconsiderare
i nostri modelli
critici e
interpretativi.
La sonnecchiosa
popolazione
di Chersogno
non accetta
il francese
non per questioni
di “igiene”
o di “educazione”
come vorrebbe
far credere,
sterili pretesti
cui aggrapparsi
per giustificare
una bieca
meschinità
vigliacca,
ma solo perché
costui, a
differenza
degli altri,
ha il coraggio
di “vivere”,
di seguire
le proprie
aspirazioni,
di non conformarsi
e rassegnarsi
ad un’esistenza
finita senza
neppure averla
cominciata.
Non lo accetta
semplicemente
per invidia,
da parte di
chi nell’immobilità
perpetua ha
trovato la
condizione
ideale per
cullare la
propria ignavia,
e spende le
proprie giornate
perchè
tutto rimanga
esattamente
com’è.
Gli uomini
liberi fanno
paura, quelli
che vanno
diritti per
la loro strada,
che non si
preoccupano
di quel che
dice la gente,
che non rimangono
prigionieri
di pregiudizi,
che, per mediocrità
o pigrizia
o inadempienza,
non si adagiano
sulla noiosa,
tranquillizante
routine. Non
è la
libertà
che manca,
scriveva Leo
Longanesi,
mancano gli
uomini liberi.
Il vento fa
il suo giro
è una
piccola grande
lezione di
cinema e di
morale, un
film esistenziale
che affonda
impietosamente
nell’animo
umano suscitando
sdegno e ammirazione,
partecipazione
e disgusto,
perché
di fronte
all’ignoranza
esiste solo
l’impotenza.
Se vi capita,
se potete,
se riuscite,
vedetelo.
E che il vento,
per stavolta,
faccia il
suo giro.
(recensione
di Mirko
Nottoli
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suo giro"! |
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