IL RIFUGIO
 
locandina il rifugio

recensione il rifugio

 
Un uomo e una donna vivono di eroina, in un appartamento vuoto, riempito dal suono di una chitarra elettrica che ripete una musica d'infanzia, carica di nostalgia. Sono crudi, aderenti alla verità delle cose i primi fotogrammi de "Il rifugio", il nuovo film del regista parigino quarantatreenne François Ozon. Scandiscono la nuda routine di vuoti esistenziali, di due vite immobili, destinate ad essere presto sconvolte. L'uomo infatti - Louis (breve ma incisiva apparizione di Malvil Poupard) - muore di overdose e la donna, Mousse (una credibile Isabelle Carré), pochi giorni dopo, scopre di essere in cinta. La famiglia di lui, di estrazione borghese e preoccupata delle conseguenze, vorrebbe che Mousse abortisse, ma la donna decide di proseguire la gravidanza. Va a vivere in una casa sulla costa basca, un rifugio per sè e per il  
 
bambino, dove affrontare le prime fasi dell'inattesa gravidanza. La raggiunge Paul (il cantante Louis-Ronan Choisy, al suo esordio cinematografico) fratellastro di Louis, che si ferma qualche giorno. La convivenza tra Mousse e Paul non è subito facile. Lei alla ricerca di serenità, lui sempre attento a cogliere la prossima occasione di sballo, sessuale o alcolico che sia. L'uso dell'HD - necessario per   recensione il rifugio
riprendere velocemente l'autentica gravidanza dell'attrice Carré - permette a Ozon di scavare sotto la superficie e penetrare nell'intimità dei due personaggi: la gravidanza solitaria e testarda di Mousse, l'omosessualità e la ricerca di una famiglia da parte di Paul, la progressiva scoperta della confidenza e della complicità, della passione e forse della possibilità di essere, in qualche modo, famiglia. Ciascuno diventa a poco a poco rifugio per l'altra: temporaneo, instabile, involontario, ma presente. Pian piano affiora l'obiettivo della pellicola. Scandire le diverse declinazioni del "rifugio": la solitudine della droga, il ventre della mamma per il nascituro, il rifugio dell'esser coppia per un uomo e una donna, un focolare domestico, l'amicizia, una musica d'infanzia che tiene vivo il dialogo con il passato, perfino il rifugio della fuga. Le nuove tecniche digitali in alta definizione - che Ozon maneggia qui per la prima volta - consentono di catturare lampi di luce, il tramonto, l'alba, la luce che filtra dalle tramature delle fronde degli alberi. Attraverso di essi, Ozon coglie l'evoluzione di una donna (e di un'attrice) alle prese con una gravidanza e le parabole di un corpo e di una vita che cambiano. Ma Mousse rifiuta la filosofia del "donarsi" genitoriale, che una donna, incontrata sulla battigia, le propone con insistenza profetica. Questo intimo rifiuto di Mousse a farsi totalmente "rifugio" per il bambino che nascerà sarà l'esito finale e a sorpresa dei 90 minuti di film. La regia è abile nel dipanare con leggerezza una storia complessa, intessuta di lacerazioni umane intime ed inespresse. È capace di restituirci con delicatezza personaggi autentici, vicini. Il film non cade nella tentazione di dare soluzioni e risposte accomodanti. Tesse intelligentemente gli orditi delle esistenze dei personaggi senza mostrarne il disegno generale. Prima dei titoli di coda, ciascuno di loro rimane con l'indicazione della meta, ma privo della mappa per raggiungerla.

(di Daniele Piccini)


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