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recensione il nastro bianco
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La poetica e lo stile sono i punti di forza che contraddistinguono lo sguardo penetrante, implacabile e chirurgico del regista viennese Michael Haneke, che con il suo ultimo film "Il nastro bianco", conquista l'ambita Palma d'Oro all'ultimo festival di Cannes 2009. Haneke ancora una volta afferma sia una personale libertà creativa sia una soggettiva differenza rispetto ad altri registi contemporanei. Il film è ambientato in un villaggio rurale, di religione protestante, della Germania del Nord negli anni che precedevano il primo conflitto mondiale. Un microcosmo sociale chiuso e gretto, dove le regole non si discutono, si subiscono oltre i limiti dell'umana sopportazione, fino a dare sfogo a gratuite efferatezze, responsabili di un'irrimediabile educazione pedagogica demolitrice delle coscienze infantili. Queste coscienze |
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inermi e tenere, impotenti a reagire ad umiliazioni profonde e laceranti, soffocano emozioni forti e schiaccianti nel loro rapporto con gli adulti, ma sono pronte a compattarsi nel restituire tale violenza subita a vittime da loro predestinate, come in un rituale punitivo. Lo sguardo di Haneke cattura e registra dietro la mdp ogni volto, luogo, espressione e silenzio. Costruisce le relazioni sospese nel terrore, tra
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individuo e collettività, in ordine a rapporti sociali soffocati da sensi di colpa, da comportamenti incestuosi e falsi ideali e dettami religiosi. Qualsiasi comportamento che persegue un'idea assoluta, alla fine è sempre causa di distruzioni sociali e comunitarie. Ed è proprio questo il messaggio del film "Il Nastro Bianco", dove il bianco è indice di purezza e di innocente sensibilità fanciullesca, che qui viene manipolata, vessata e resa buia e violenta. Due ore e venticinque minuti caratterizzati da uno stile costruito su intensi contrasti di luce in bianco e nero, con luoghi in ombra tagliati da luci trasversali ed una cinepresa che sta molto vicina ai personaggi, quasi sulla pelle. Stile che ricorda senza dubbio il cinema del grande maestro svedese Ingmar Bergman. E come Bergman, Haneke adatta il film alle figure degli attori, ai loro corpi e volti, riuscendo in un linguaggio comunicativo di grande effetto e pregio artistico. D'altra parte Haneke ha sempre trattato nei suoi film temi inquietanti, se pur affascinanti, dai contenuti intrisi di miseria, fragilità e follia dell'essere umano, che si spinge fino alle radici di una violenza insensata. "Funny Games" 2008, "Niente da nascondere" 2005, " La Pianista" (protagonista Isabelle Huppert, premio miglior attrice a Cannes 2001) tutti film diretti dal regista viennese, ne sono una dimostrazione. "Il Nastro Bianco" si configura come un'opera di una particolare intensità poetica e stilistica. La voce narrante del maestro (Christian Friedel), la profondità di campo, la panoramica, non raccontano solamente, ma scrutano il microcosmo nei dettagli. Il primo piano è una lente che osserva il volto umano. La stessa cinepresa in questo contesto cattura e cristallizza la soggettività, è una cinepresa calata dentro le cose, i luoghi, gli stessi personaggi. Da non perdere!!
(di Rosalinda Gaudiano )
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