IL NASCONDIGLIO
 

recensione il nascondiglio

 
Che Avati fosse regista versatile era cosa nota. Scorrendo la sua produzione registica (tanto cinematografica, quanto televisiva) ci si imbatte infatti in un calderone quanto mai variegato: dai toni burleschi degli esordi agli horror agresti d’ambientazione padana, dalle rivisitazioni dell’epos medioevale alla lievità delle commedie dell’ultimo lustro. Ogni cosa a suo tempo, recita un monito di indiscussa saggezza. “Il nascondiglio”, ultima fatica del regista bolognese, rappresenta paradossalmente un ritorno. Un già visto, un “adulterio” che il regista consuma in omaggio a un genere (l’horror-thriller gotico) che fu croce e delizia di due intere decadi del cinema italiano, e di cui un Avati in stato di grazia fu ispirato cantore: lo testimoniano, nonostante bonarie ingenuità, opere come “La casa dalle  
 
finestre che ridono” e “Zeder”. Ma chi scrive, memore della fragilità delle cosiddette operazioni nostalgia, non nasconde di essersi posto una domanda prima della visione de “Il nascondiglio”: perché? Dove cercare il senso di un’operazione che puzza di vuoto riciclo? Piacevole sorpresa, di conseguenza, il fatto che il film di Avati risulti insperatamente godibile. E, Deo gratias, che riesca persino a fondere elementi triti e abusati  
in una commistione che rincuora per amore (verso un genere) e umiltà (verso lo spettatore). “Il nascondiglio” si appropria di spunti narrativi che sulla carta spaventano, ma solo in quanto negazione del concetto cinematografico di originalità: solita casa misteriosa, solita protagonista ritenuta paranoica e pazza, solita voce riecheggiante litanie che si vorrebbero inquietanti. Ma il regista, che dosa con miracolosa efficacia ogni ingrediente, riesce a rendere appetibile l’impasto, evitando clamorosi scivoloni, giocando con i riflessi di un’ambientazione non scontata (il Midwest degli Stati Uniti), costruendo un’ossatura ritmica di decoroso livello. Doveroso segnalare, quantomeno, quella che in un contesto iper-inflazionato e vilipeso come il filone thriller appare una scelta illuminata: Avati rinuncia a roboanti colpi di scena o travolgenti climax, optando per uno sviluppo narrativo che vive più di atmosfere e suggestioni. Scelta che, inutile sottolinearlo, richiede un tatto difficile da riscontrare in pellicole simili, compitini spesso fasulli e smaccatamente alimentari. Lontano dal capolavoro tanto quanto dalla cialtroneria: Avati dimostra di avere qualcosa da dire. Significativo che, inaspettatamente, lo faccia in un orizzonte lontanissimo dalle recenti (e forse sopravvalutate) esperienze filmografiche.


(recensione di Lorenzo Donghi)

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