RECENSIONE - IL MIO NOME E' KHAN
 
locandina il mio nome è khan
Locandina "Il mio nome è Khan"

recensione - il mio nome è khan

 
Presentato come un evento al Festival di Roma, interpretato da due icone dell’Olimpo di Bollywood da cui la pellicola proviene, apprezzato dalla critica indiana e addirittura stimato dai selezionatori della Berlinale che hanno deciso di includere il film fuori concorso. My name is Khan è solo una parte per il tutto: una parte di vita di ogni singolo spettatore – la madre che inevitabilmente, per amore, è disposta sempre a perdonare, chi ha un difetto e fa di tutto per non sentirsi ultimo, chi è innamorato e vuole sposarsi a tutti i costi, chi, ancora, ha un credo religioso diverso dalla massa – ma anche la parte di una dichiarazione che tocca da vicino la storia dell’umanità degli ultimi anni. Il mio nome è Khan e non sono un terrorista, sarebbe a dirla tutta. È la dichiarazione-simbolo di una svolta politica post 11 settembre, il lamento  
 
degli emarginati negli USA, di chi è discriminato perché musulmano ad esempio, e quindi, necessariamente considerato pericoloso. Il film è un puzzle, schietto e determinato, di stati d'animo negativi ma utili per comprendere come l'uomo, a volte, con i suoi pensieri e le sue azioni si sbaglia. A dimostrarcelo è Khan, proprio uno degli ultimi: di origine indiana, emarginato fin da piccolo perché affetto da una strana malattia, la   recensione il mio nome è khan

sindrome di Asperger, che lo obbliga a convivere con degli strani tic, con la paura della gente, del colore giallo, del rumore e dei posti sconosciuti. Una forma di autismo che ti condanna a vita, ti minaccia ogni giorno come fanno i bulli della scuola, ti annulla piano piano. Se non fosse per la sua straordinaria intelligenza e la sua conoscenza infinita nei confronti delle cose, ogni genere di cosa: dall'amore puro agli orari esatti in cui sorge il sole tra i grattacieli americani. La sua debolezza – in realtà la sua corazza più grande, che gli permette di dire e fare ciò che vuole, pure al vicino di casa, durante un invito a cena, che il pollo fa schifo – diventa il suo lato migliore quando si innamora, fa le veci di un padre assente, quando vive lo sconvolgimento del lutto della madre o dell'amico partito in guerra. Quando, ancora, l'intero Paese in cui vive – l'America – viene colpito da un attacco terroristico e due aerei si schiantano all'improvviso contro le Twin Towers. Comincia così un grande spartiacque della storia, come avanti Cristo e dopo Cristo sulla linea del tempo: ora c'è il prima e il dopo 11 settembre 2001. Il disagio allora aumenta, la discriminazione dovuta alla malattia ora diventa un motivo di emarginazione religiosa verso un povero bambino e verso di lui: due figure deboli, che entrambi non possono difendersi, ma che dimostrano più forza con la loro determinazione e le loro azioni dei bombardamenti o dei pugni fatali tra adolescenti di fazioni opposte in un campo da baseball. Il ripiego umano della pellicola si tramuta in una svolta sociale coraggiosa, assumendo quasi i caratteri di denuncia contro le ingiustizie – nelle scuole, per strada, nei posti di lavoro, ovunque – che la popolazione islamica subisce dopo la politica del terrore americana e quelle di una guerra che non fa sconti: chi uccide un innocente uccide un'intera umanità. Che importa che a dirlo siano le sure del corano piuttosto che una donna con un velo. Nonostante una colonna sonora bollywoodiana incalzante – alle orecchie di un occidentale quasi divertente e fuori luogo in mezzo a tanta tragedia – utile a rendere scorrevoli due ore di film, si assiste ad una condizione di odio continua che non fa altro che generare ulteriore odio, disperazione che accumula altra disperazione, ingiustizie – private o mondiali – che partoriscono ingiustizie ancora più grosse. Bambini spaventati dalla morte e accecati dall'odio, frasi di troppo dettate dalla rabbia, esclusione sociale con tutto ciò che ne consegue. E poi fatti sociali così drammatici che rendono il succedersi degli eventi ancora più spinoso. In tutto questo un tenero Khan e il suo universo – impossibile non paragonare l'interpretazione alla prova eccellente di Tom Hanks nei panni di Forrest Gump – dove regna una regola ben precisa: portare a termine ogni promessa per dimostrare di saper amare: anche se questo comporta aiutare le vittime dell'uragano che sconvolse la Georgia poco tempo dopo l'attacco terroristico o tentare di avere un dialogo con il presidente degli Stati Uniti e dimostrargli, appunto, di essere Khan, di essere musulmano e nient'altro. Nessun terrorista. La sceneggiatura potrà sembrare quasi eccessivamente filmica ed esagerata, ma il cuore di chi guarda il film è coinvolto in maniera spietata e senza tregua: tutto passa in secondo piano. Ed è Khan stesso a non dare tregua alla verità più assoluta e più forte di ogni discriminazione: amor vincit omnia.


(recensione di Andrea Dispenza)


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