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recensione il mio amico eric
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"Il mio amico Eric" è la nuova storia popolare regalataci da Ken Loach, cantore per eccellenza di speranze e sentimenti comuni. Non inganni il titolo italiano, né la presenza di Cantona, atleta pregevole e personalità carismatica. Il regista britannico si sofferma a raccontare vite umili e semplici con la sua solita formidabile abilità nel miscelare dramma e ironia. La novità dell'opera risiede nel fatto che il realismo sociale, marchio distintivo dell'autore, venga qui "contaminato" dalla magia dell'imaginazione. Ma il problema non si pone poichè l'immaginazione stessa accade, è realtà; d'altro canto l'impianto stilistico non si snatura con il ricorso a qualsivoglia effetto speciale, ma si affida ad un abile operazione di montaggio. Eric Cantona, dunque, appare su pellicola ma solo per vivere nella mente di un tifoso. Il titolo |
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inglese recita"Looking for Eric", laddove Eric è proprio il nome del protagonista, postino divorziato, grande tifoso del Manchester United, preda di una grave crisi esistenziale e incapace di trovare in sé stesso un minimo di autostima. Quando sembra aver perso la speranza di ritornare a vivere con gioia non gli resta che abbandonarsi ai ricordi e soffermarsi a fissare il poster a grandezza naturale del suo eroe. A lui
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affida il ruolo di mentore, grazie a lui scandaglia gli spazi più reconditi del proprio inconscio e arriva a capire che il vero problema è qualcosa accaduto trent'anni prima. Iniziano sedute quotidiane a base di spinelli e (auto)confessioni, si parte alla scoperta di qualità insospettabili, prima fra tutte il coraggio di rischiare per abbandonare ciò che si conosce e raggungere ciò che si desidera veramente. Attraverso questo processo sofferto Eric coglie a fondo l'importanza degli altri, la bellezza dell'amicizia e della fiducia e cerca di recuperare il rapporto con la madre di sua figlia che ha abbandonato trent'anni prima. Da sfondo, onnipresente, la magia di quel melodramma collettivo che è il gioco del calcio, capace di stimolare nella gente tutto il flusso delle emozioni possibili, con la rassicurante consapevolezza che in fondo non si tratta della propria vita. Football come esercizio terapeutico, dunque, ad insegnare che anche quando i drammi sembrano risolti potrebbero arrivare nuove difficoltà, ma che l'importante è non mollare e sapere che si potrà sempre contare su sé stessi e sui propri compagni. La sceneggiatura di Paul Laverty è brillante e originale, poiché capace di fermarsi e ripartire con incastri inaspettati, così come la macchina da presa si mimetizza nel racconto lasciando spazio agli eventi e alla fisicità unica dei personaggi. Nota particolare per Steve Evets, davvero convincente, e per "Eric Cantona, The King" dotato di una presenza scenica formidabile..ma su questo non c'erano dubbi.
(di Lucio De Candia)
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