IL DESTINO NEL NOME
 

recensione il destino nel nome

 
Mira Nair (Leone d'oro alla 58ma Mostra Internazionnale d'Arte Cinematografica di Venezia, con il film “Monsoon wedding”), ritorna a proporre per il grande schermo: “Il destino nel nome”, film che ha tutti i requisiti di messaggio multietnico, multiculturale nonchè interculturale. Già presentato alla Festa di Roma nella sezione “Premiere”, il film è tratto dal romanzo di Jhumpa Lahiri: “The Namesake”. Una giovane coppia Bengalese, Ashoke (Tabassum Hasmi) e Ashima (Irrfan Khan), emigra, dalla loro adorata e calda India, in America, nella fredda New York. Nella nuova terra la coppia si installa con tutti i buoni propositi di “adeguarsi” ad un modo diverso di concepire costumi e valori culturali. Per la giovane moglie Ashima l’adattamento risulterà molto difficile, se non impossibile: non abbandonerà mai l’idea di indossare il suo sari, simbolo di  
 
attaccamento costante alla sua terra d’origine, alla sua gente, ai suoi affetti. La vita di coppia di Ashoke e Ashima è allietata dalla nascita del primogenito, la cui vita futura sarà segnata, per l’appunto, dal nome Gogol, come l’autore del “Cappotto”, libro molto rappresentativo per il padre Ashoke. Nelle famiglie con genitori emigrati, le problematiche conflittuali con i figli sono molto più accentuate, per motivi da attri-  
buire al divario tra modi e modelli di concepire la vita, che costituiscono la base delle certezze individuali, defininendo ogni forma di relazione umana. Mira Nair, senza eccedere in una narrazione alla Boollywood, racconta con discrezione i disagi che lo sradicamento dalla propria terra comporta. Racconta come il figlio Gogol (Kal Penn) alla fine sceglie di farsi chiamare Nick, e come lui e sua sorella si sentano più americani e molto poco indiani. Anche se i genitori cercano in tutti i modi di creare nei figli il senso di appartenenza alla cultura d’origine famigliare, compiendo viaggi nell’assolata e rumorosa Calcutta, e pellegrinaggi al Taj Mahal, settima meraviglia nel mondo, i conflitti sono sempre in agguato. La morte del padre di Gogol rappresenta un momento di passaggio molto intenso per il giovane Gogol, che ripercorre nella memoria il rapporto con il genitore, fino alla spiegazione della scelta del suo nome legato al libro che il padre stesso gli regalò. Momento di disperazione più che altro, che lo costringe a ricercare delle sicurezze in quella cultura genitoriale che non ha mai compreso nella sua essenza ed interezza. Lascia la sua fidanzata yankee, per sposarne una Bengalese, che lo tradirà senza ritegno. Mira Nair, nel linguaggio simbolico che struttura il senso della narrazione, inserisce come sempre i riti di passaggio della sua cultura indiana, momenti che definiscono alleanze e coesioni familiari, ma l’importante è il come li definiscono. Dal contesto della narrazione emerge in modo rappresentativo la figura della madre Ashima, donna rassegnata al suo destino di emigrata, ma forte e risoluta, che ha accettato la sua condizione non felice, solo per amore verso il marito, amore che non è mai riuscita a esternare come avrebbe voluto. Alla fine è proprio il rientro di Ashima a Calcutta, a liberare un pò Gogol dal sentirsi soggiogato da un destino legato alle due culture, contrastanti e differenti, da cui, volente o nolente, deriva, nel complesso, la sua identità culturale. Il film non è un capolavoro, ma alla fine convince proprio nella rappresentazione riuscita di un messaggio sincretico, pacato ed incisivo nel suo stile.

(recensione di Rosalinda Gaudiano )


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