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il codice da vinci
- recensione
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Premessa: avevamo
fatto i compiti. Avevamo
letto a suo tempo
Il codice da Vinci,
caso letterario del
decennio o forse del
secolo, e ovviamente
non ci era piaciuto.
Non per le sue teorie
anticlericali, per
i falsi storici, le
mistificazioni, le
supposizioni a dir
poco “avventurose”.
Di tutto questo non
ce ne frega niente.
Non ci era piaciuto
per il semplice fatto
che è un romanzo
scritto coi piedi
(ma tranquilli, Angeli
e Demoni, il romanzo
precedente di Dan
Brown è ancora
peggio), un thriller
da autogrill dalla
trama cigolante e
snodi narrativi di
disarmante elementarità,
furbo nel rimasticare
in salsa pop congetture
già avanzate
di facile attrattiva.
Il Santo Graal, il
sorriso della Gioconda,
gli indovinelli di
Leonardo, i Cavalieri
Templari, i pagani
e il Cristianesimo,
i misteri della fede
che sprofondano nella
notte dei tempi e |
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che
hanno
alimentato
una
letteratura
sconfinata.
Ora
che
il Codice
da Vinci
è
diventato
un film,
all’anteprima
interplanetaria
di Cannes,
i critici
hanno
già
storto
i loro
nasi,
hanno
sogghignato,
non
hanno
applaudito.
Troppo
facile
così,
troppo
snob.
La verità
è
che
da un
materiale
come
quello
di Dan
Brown,
materiale
“blindato”
dal
quale
non
ci si
poteva
permettere
alcuna
libertà,
tutto
inseguimenti,
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fughe rocambolesche,
agnizioni
sul filo di
lana e innamoramenti
telefonati,
non si sarebbe
potuto realizzare
un film migliore.
I buchi di
una sceneggiatura
basata non
tanto su sofisticate
risoluzioni
di sofisticati
enigmi, né
tantomeno
su rivelazioni
illuminanti
in grado di
far barcollare
credenze millenarie
(da qui la
patetica presa
di posizione
del Vaticano
che ha sprecato
fiato per
bollare libro
e film come
scandalosi),
quanto su
poveri e casuali
colpi di scena
che giungono
inaspettati
ogni volta
a salvare
puntuali i
nostro eroi,
sotto forma
o di un improvvido
svolazzare
di colombe
che distolgono
l’attenzione
o di un maldestro
bossolo che
casualmente
si incastra
tra il portellone
di un furgone
sempre nel
momento esatto
in cui si
sta per premere
il grilletto,
ci sono –
i buchi –
e rimangono
tutti. Ma
Ron Howard
(il miglior
mestierante
in circolazione),
insieme all’inseparabile
Brian Grazer
(uno che ha
capito tutto
dalla vita),
è abile
nel confonderli
e nel superarli
di slancio
imprimendo
al suo "Codice
da Vinci"
un ritmo vorticoso
che sembra
far scorrere
le due ora
e mezza di
proiezione
a velocità
pressoché
doppia. Le
tematiche
trattate solleticano
la curiosità
al di là
del bene e
del male,
al punto da
spingere improbabili
personaggi
a visitare
il Louvre
o andare a
vedere per
la prima volta
il Cenacolo.
Se poi il
povero Robert
Langdon viene
portato sul
luogo di un
delitto con
l’accusa
di omicidio
e questi può
allontanarsene
con uno stratagemma
qualsiasi,
o se, prelevato
da una conferenza
e sbattuto
in mezzo ad
una storia
di omicidi
plurimi, in
tutta tranquillità,
non trova
altro da fare
che andare
al Bois de
Boulogne,
in piena notte,
a raccontare
la storiella
dei Templari
ad una sconosciuta
incontrata
mezz’ora
prima, beh,
catturati
dal susseguirsi
incalzante
degli eventi,
ci si fa poco
caso! Partecipano
e contribuiscono
all’impresa
un cast “all
star”
tra cui spicca
un Tom Hanks
che in giacca
di velluto
e col capello
un po’
lungo sembra
il prototipo
perfetto del
professore
americano,
e una serie
di location
che anche
da sole garantirebbero
una fascinazione
tale da far
dimenticare
tutte le incongruenze.
Lui che dice
a lei “tu
sei l’erede
di Gesù
Cristo”
non può
che far scappare
da ridere.
Ma l’ultima
sequenza,
con Langdon
in piedi sulla
piramide rovesciata
di Ieoh Ming
Pei –
definita “una
brutta cicatrice
sul volto
di Parigi”
dal becero
poliziotto
– che
guarda in
basso mentre
la telecamera
si inabissa
a rilevare
il più
grande dei
segreti là
sotto gelosamente
conservato,
sa riservare
un’autentica
emozione.
(di Mirko
Nottoli
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