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IL
CANE GIALLO DELLA MONGOLIA |
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Byambasuren Davaa
torna. Dopo aver raccontato,
in una sorta di tesi
di laurea, La storia
del cammello che piange
(insieme a qualche
spettatore, temiamo)
con il nostro Luigi
Falorni, comincia
una strada solitaria,
facendo venire il
sospetto di voler
aprire una saga, magari
sponsorizzata dal
National Geographic
& C. Anche qui,
infatti, protagonista
è un animale,
che tanto felice non
sembra. D’altronde
così fortunato
non è: chiuso
in una grotta, viene
scovato da Nansal,
bimba di sei anni
di una famiglia nomade,
impegnata in una delle
sue lunghe passeggiate.
Macchia, questo il
nome che darà
a… Il cane giallo
della Mongolia, è
mal sopportato, in
particolare dal padre,
diffidente per essere
più volte stato
vittima di lupi, anzi
di cani selvatici.
Vedremo una piccola
odissea quotidiana,
attraverso questa
storia |
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minimalista,
di una
famiglia
fuori
dal
mondo
e dal
tempo,
combattente
generosa
e rispettosa
di un
territorio
ostico
e inospitale,
ma sua
unica
fonte
di vita.
Come
nella
storia
del
cammello
albino
e triste,
perché
rifiutato
dalla
madre,
qui
c’è
la storia
di un’emarginazione
ingiustificata,
ma quasi
inevitabile,
perché
la discriminazione,
in tutte
le sue
accezioni,
è
un male
figlio
della
natura
umana.
Attori
non
professionisti,
uomini
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e animali,
si comportano
bene in un
film d’invenzione
che ha lo
stile di un
documentario.
Pregio, ma
soprattutto
difetto dello
stile piano
di Davaa,
che non emoziona
ma accarezza
il cuore forse
troppo lievemente
per gran parte
degli spettatori.
Storie lontane
e delicate
di un estremo
oriente che
si lasciano
andare con
troppa lentezza
e prevedibilità,
quasi fosse
uno di quei
cd dalla musica
tribale semi
ipnotica,
un new age
rilassante,
fin troppo.
Anche qui
l’eroe
sfortunato
e ripudiato,
animale che
sembra indifeso
ma che si
rivela coraggioso
e tenace,
si riscatta
e riesce a
farsi accettare.
Qui il cane,
però,
deve darsi
addirittura
all’eroismo,
senza alcun
aiuto esterno.
Salverà
il più
piccolo della
famiglia dalla
sbadataggine
di madre e
sorella, ma
soprattutto
da un branco
di avvoltoi
affamati.
Pur essendo
legato con
una corda.
Commovente.
Ci chiediamo
ora Davaa
come andrà
avanti. Sembra
essere chiaro
il ridimensionarsi,
l’imborghesimento,
dall’imponente
cammello si
passa al più
piccolo e
domestico
cane. Scherzi
a parte, se
è vero
che la regista
ne "Il
cane giallo
della mongolia"
dà
più
spazio ad
una storia
compiuta e
vissuta attivamente
anche dalle
persone, sembra
perdere anche
quella malferma
ma sensibile
poesia del
suo primo
lungo lungometraggio.
C’è
talento nella
mano e nell’occhio
di chi gira
queste scene,
ma anche una
freddezza
quasi indifferente.
Fossimo ancora
prima delle
ultime riforme
scolastiche,
sarebbe da
rimandare
a settembre.
Noi ci limitiamo
ad aspettarne
il terzo lavoro
per augurarci
un cambiamento.
(di Boris
Sollazzo)
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