IL BUIO NELL'ANIMA
 

recensione il buio nell'anima

 
Un paio di cose che si imparano da “Il buio nell’anima”: 1) a New York è impossibile morire vecchi. Se non ti aggrediscono al parco ti sparano al supermarket. Se non ti sparano al supermarket ti accoltellano in metropolitana. In ogni caso è solo questione di tempo. 2) a New York si può sparare tranquillamente a chiunque che tanto nei dintorni non c’è mai nessuno che vede. Il che facilita un bel po’ la vita a giustizieri improvvisati in cerca di vendetta. Già dall’incipit “Il buio nell’anima” mostra di che pasta è fatto, retorico, scontato, in debito d’ispirazione. La descrizione che fa della coppietta felice d’innamorati è di quelle da far venir i brividi, con lui, lei e il cane di nome Curtis (si pronuncia “cœrtis”), lui indiano mezzo sangue (coppia felice e interrazziale spudoratamente politically correct) dolce e premuroso, e lei giova-  
 
ne donna (?) emancipata che frequenta le gallerie d’arte contemporanea e dice quelle fesserie intellettualoidi che si dicono solo nelle gallerie d’arte contemporanea. Che due così vengano presi a bastonate (a causa di “cœrtis” per giunta) è il minimo che si possa sperare! Purtroppo lui non ce la fa (lo ritroviamo in “Planet terror” di Rodriguez e anche lì non fa una bella fine), e lei, risvegliatasi dal coma,  
decide di sconfiggere la paura munendosi di pistola e cominciando a compiere giustizia sommaria. Potrebbe sembrare il programma elettorale della Lega invece è l’ultima fatica di Neil Jordan, regista di tutto rispetto che qui non riesce a trovare la giusta misura per un film che non decolla mai, mal servito da una trama improbabile ed esitante, tanto pretestuosa negli intenti quanto banale negli esiti. Ci sono infiniti registri per affrontare un film del genere. Jordan sceglie probabilmente il peggiore, che è anche il più facile, quello diviso tra dramma esistenziale strappalacrime (gli insopportabili flashback di loro due felici che fanno l’amore) e introspezione psicologica/filosofica sulla natura dell’essere umano (l’insopportabile voce fuori campo a pontificare sul nulla), condito da timidi accenni di critica sociale (le forze dell’ordine non ci sono mai!) e da altrettanto timide sequenze d’azione che avremmo voluto almeno liberatorie e invece insufficienti a placare la sete degli animi vendicativi più accalorati. L’antipatica Jodie Foster, novella giustiziere della notte, dà fondo a tutto il suo repertorio di espressioni sovraccaricate, smorfie sofferte, occhi sbarrati, facce tirate più dal chirurgo estetico che dalla convinzione. Ci costa dirlo ma è così: molto meglio il Charles Bronson che fu. E “The punisher” da rivalutare assolutamente.

(recensione di Mirko Nottoli )

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