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«I Vicerè»
di De Roberto raccontava,
in modo asetticamente
truce, di un naufragio
silente, bisbigliato
ma ineluttabile. Il
suo affresco dell’Italia
appena fatta risuonava
come un requiem, sommesso
e pure irresistibile
nella sua ineluttabilità.
Come se si fosse già
immersi nell’abisso,
come se il Risorgimento
fosse già carne
da sbranare sui banchi
di parlamenti corrotti.
Le sue pagine erano
una mannaia calata
con lucidità
spinta fino al dolore
sulle illusioni di
un nuovo corso che
era nato già
morto (come simboleggiato
efficacemente dal
feto deforme conservato
da Chiara sotto formalina).
È doveroso
sottolineare che di
tutto ciò,
nel film di Faenza,
resta ben poco. Nel
suo fervore qualunquisticamente
annacquato, Faenza
riduce tutto a pochi
e usuranti assiomi:
destra e sinistra
è lo stesso,
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tutti
rubano,
e così
via.
Senza
perdere
la calma,
come
il Moretti
di “Ecce
Bombo”
(che
strangolava
l’avventore
del
Bar
dopo
la sua
chiosa:
«rossi,
neri…alla
fine
tutti
uguali»),
verrebbe
però
voglia
di spiegare
a Faenza
la sottilissima
differenza
che
intercorre
tra
la visione
amara
e decadente
(della
politica,
dell’Italia,
degli
italiani)
di De
Roberto
e il
suo
ritrattino
modesto
modesto
che
si affanna
a raccontare
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di ieri per
insegnarci
che cos’è
l’oggi.
Né,
senza dubbio,
aiuta il pastrocchio
psicanalitico
incastrato
a forza nella
realtà
derobertiana:
con l’ennesima
declinazione
del complesso
edipico (dopo
il recente,
e altrettanto
pasticciato,
“Nessuna
qualità
agli eroi”
di Paolo Franchi),
per cui il
cinico Consalvo
deve la sua
pericolosa
e asfittica
ambiguità
niente più
che al suo
tormentato
rapporto con
il padre.
Come a dire:
il disastro
politico e
sociale in
cui versiamo
non è
che frutto
di politici
dall’infanzia
difficile
e priva di
affetto. Ma
suvvia, Faenza,
suvvia! Né,
senza dubbio,
aiuta una
regia televisivamente
insapore,
sciapa, insensibile.
Mai un assolo,
mai un pensiero
per lavorare
l’immagine,
e piegarla
al senso.
Paragonare
“I Vicerè”
a “Il
Gattopardo”
di Visconti,
come qualcuno
ha fatto (e
come si lamenta
lo stesso
Faenza), è
operazione
fuorviante,
ma soprattutto
crudele. Perché
là
eravamo nel
Cinema, mentre
qui non siamo
troppo lontani
(ancora una
volta, ahimé)
da prodotti
solidamente
fiction, qui
non ci siamo
spostati,
sul piano
della forma,
del contenuto,
della ricerca
del pubblico,
da confezioni
luccicanti
e svuotate
alla stregua
di un “Elisa
di Rivombrosa”
qualsiasi.
Resta da capire
se è
questo che
si desidera
pretendere
dal cinema
italiano.
Se è
questo, allora,
per tornare
ancora a Moretti,
non si può
che concludere
che ve lo
meritate,
Faenza, e
anche Preziosi,
e anche la
Capotondi.
(recensione
di Mattia
Mariotti
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