HUMPDAY
 
locandina Humpday

recensione Humpday

 
Humpday, gioco di parole per indicare il mercoledì, ossia la metà della settimana, il punto esatto in cui si è in mezzo al guado ma anche "to hump", termine in slang per intendere in modo sconcio il rapporto sessuale. Ben e Andrew sono due amici dai tempi del college che si rivedono dopo 10 anni. Le loro vite hanno preso strade diametralmente opposte: uno è ingegnere, si è sposato e sta pensando di avere un figlio; l'altro è un nullafacente bohemien perso tra il Chapas e Machu Picchu. Si rivedono e durante una serata alcolica e strafumata decidono di girare un film porno con cui partecipare all'Humpfestival. Un film porno gay con protagonisti due uomini etero che scopano insieme, cioè loro! Girato in 10 giorni, a bassissimo budget da un ristretto gruppo di amici, senza copione ma improvvisato in gran parte sul set, Humpday è solo in apparenza  
 
sgangherato e destrutturato, in realtà è inesorabile nell'affondare progressivamente nell'interiorità della natura umana, rivelando e cogliendo i lati oscuri, le contraddizioni e le insicurezze che si celano in ognuno di noi. Con leggerezza e gusto dell'assurdo, tratta temi importanti come l'omofobia, le convenzioni sociali, il senso relativo di liberta, la competizione data dall'umana e mal riposta invidia verso l'altro,   recensione Humpday
tutte quelle cose che sentiamo ma che non possiamo dire. Sconvenienti, scandalose, meschine. Ma che il più delle volte sono volatili come fumo, senza sostanza, senza fondamento, nate e cresciute da un frangente di insicurezza o frustrazione che sembrava diventare soffocante. Ma mica si soffoca. Il piacere di trasgredire è più bramato che reale, basta sapere di poterlo fare e già svanisce metà del fascino. L'idea dei nostri eroi è abnorme, un vero nonsense, eppure nel crescendo della pellicola, nella dinamica che si instaura tra i due, dissezionata con precisione chirurgica, si riescono a cogliere così perfettamente le ragioni profonde che li muovono che alla fin fine la loro scelta appare la più sensata e ragionevole possibile. Fattura amatoriale, immagine mossa, sgranata e fuori fuoco, disinteresse per i principali raccordi di montaggio, la regista Lynn Sheldon usa la telecamera con la stessa libertà con cui il romanziere usa la penna stilografica, per usare una celebre definizione. Gli spazi ristretti, le prospettive ravvicinate servono a trasmettere maggiormente l'atmosfera di intimità e introspezione richiesta dallo sguardo che una donna rivolge al mondo maschile, uno sguardo privo di preconcetti, acuto e indagatore non per malizioso discredito ma per onesta voglia di comprendere. Chi ne mastica parla di "mumblecore", nuova frontiera del cinema indipendente americano derivante da "to mumble" ovvero borbottare, parlottare tra sé e sé, con cui si vuole intendere un cinema intimista d' afflato verista che affonda le radici in altre numerose esperienze già battute in passato. Doppiano Lillo e Greg che non sono doppiatori e si sente. Presentato a Cannes, già vincitore del premio speciale al Sundance Film Festival e del premio John Cassavetes (a proposito di esperienze battute in passato) agli Indipendent Spirit Awards.

(di Mirko Nottoli)


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