la domanda risulta velleitaria. Per tre quarti di film seguiamo le tre vicende che procedono parallelamente e autonome in attesa del momento in cui incocceranno l'una con l'altra ma quando questo avviene il risultato è al di sotto delle aspettative. Sviluppo lineare e morale trasparente, Hereafter non è che non sappia confezionare momenti toccanti o pizzicare corde sensibili. Eastwood tratta il materiale con estrema discrezione, lo maneggia con riverenza, evita pacchianerie extrasensoriali, rischia l'eccessiva semplificazione (Matt Damon sembra una sorta di x-men), riesce a ironizzare perfino sui tanti chiaroveggenti ciarlatani che dicono ispirarsi a questa o quell'altra pseudoscienza. Al centro stanno la solitudine quasi mitologica del sensitivo, la destabilizzazione dell'anchor-woman in carriera, il senso di abbandono del bambino. A ben vedere quelle di Eastwood sono ancora storie di uomini che trovano nella bravura degli interpreti il perfetto medium per essere incarnate, su tutti il sempre eccezionale Matt Damon (al secondo film consecutivo con Eastwood il quale ha posticipato le riprese del film per averlo) e la notevolissima presenza femminile di Cecile de France. Per Woody Allen e per Pupi Avati un film all'anno è troppo. Eastwood invece fa un film all'anno e non sbaglia un colpo. Per
Hereafter le cronache ce lo danno in mutande con la cinepresa in spalla immerso nei flutti dell'oceano hawayano per girare la scena - sconvolgente per realismo e potenza - del maremoto. Inesauribile. Ed è già in procinto di lanciare il prossimo, il biopic su J. Edgar Hoover con Leonardo di Caprio.
(recensione di Mirko Nottoli )