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Dopo l'intenso Ammaniti, Salvatores torna alla commedia, ritrova vecchi amici (Diego Abatantuono e Fabrizio Bentivoglio), ne incontra di nuovi (Fabio de Luigi, Margherita Buy, Carla Signoris, Valeria Bilello), nel frattempo deve aver visto i Tenenbaum di Wes Anderson e deve esserne rimasto folgorato tanto da voler diventarne un emulo. In Happy Family c'è tutto e non c'è niente. Idee tante, originali poche, molte scopiazzate e rimasticate poi lasciate galleggiare in un brodo diluito come pezzi di un minestrone che non si è amalgamato. Perché tra tante idee manca l'unica fondamentale, quella che detta la direzione, quella che punta sul traguardo, quella che sa il gusto che si vuole ottenere. Il collante, il coerente. Ci prova Salvatores in tutti i modi ad insaporire la pietanza: prende i Tenenbaum quasi in blocco (famiglie |
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stravaganti, un
piccolo genio che si veste strano, una ragazza depressa che sta sempre immersa nella vasca da bagno, lo stesso identico impianto letterario con narratore, voci fuori campo e suddivisione in capitoli introdotti da cartello e titolo), ci aggiunge un po' di About a boy, e ricorre all'ormai vecchio stratagemma del racconto meta-cinematografico, ossia al film nel film per dare quel quid intellettuale/spregiudica- |
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to dove i personaggi d'invenzione ad un certo punto prendono vita, si staccano dalla loro cornice fittizia e cominciano ad interagire con il loro autore (Woody Allen vi dice niente? Pirandello vi dice niente? Bertold Brecht vi dice niente?). Cita (cita?) perfino il finale de I soliti sospetti. Non basta. Non basta nemmeno Abatantuono strafumato in calzoni corti e camicia hawaiana o la nonna colpita dall'Alzheimer che serve a ripetizione i tagliolini. In questo zibaldone che è Happy Family trovano posto anche un finto finale con tanto di pellicola bruciata, un finto incipit, una domanda in vago stile giovane Holden sul cosa ci stiano a fare i gabbiani a Milano, una dedica altisonante a chi ha paura (altra cosa era la dedica di Mediterraneo), una lunga sequenza muta in bianco nero, un inserto parodistico di cinema espressionista, una sequenza soft erotica tra il buon De Luigi e Valeria Bilello, gratuita e scollegata stilisticamente e concettualmente dal resto del film, come lo sono del resto tutte le altre, come lo è del resto l'intero film. Prima si ride, poi si sorride, poi ci si annoia anche a sorridere quando si capisce che non è più un sorriso ma una paresi facciale. E' un'opera minore, si dirà. Ok. E' un semplice e divertito divertissement, si obietterà. Va bene. E' una dichiarazione d'amore verso il cinema. Certo. Ma dichiarare e basta non basta, ci vuole anche l'amore, che è dedizione, impegno, ispirazione, ecco gli ingredienti che qui mancano.
(di Mirko Nottoli)
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