HAFEZ
 

hafez recensione

 
Abolfazl Jalili, regista iraniano, non altrettanto conosciuto a livello internazionale, quanto il suo collega Kiarostami, ma come questo di grande spessore, firma la regia del lungometraggio “Hafez”, uno dei 14 film in concorso alla Festa del Cinema di Roma, nella Sezione Cinema 2007, che propone la particolarità dei lungometraggi d’autore a livello internazionale. “Hafez” sorprende non poco per la sua liricità, espressa nella falsa semplicità di scrittura filmica, che si traduce in una ricerca minuziosa degli elementi simbolici di una cultura, in questo caso iraniana, senza cadere in un’eclatante rappresentazione esteriorizzante. Jalili, mette in scena, attraverso la figura del mitico Hafez, poeta iraniano vissuto nel XIII secolo, un tema fondante della sua cultura, che trova le radici nel misticismo religioso  
 
sufista. Il giovanissimo Shams-Al-Din (Mehdi Moradi) è in grado di recitare a memoria ogni punto del Corano, ogni sura, accompagnando la recitazione con un profondo e forte senso di naturale e sentita misticità. Per questo gli viene dato il soprannome di Hafez. Il guru Nafti vuole che Hafez insegni a sua figlia Nabat (Kumiko Aso), vissuta con la madre in Tibet, la recitazione delle sure del Corano, senza però  
mai guardarla in volto. Tra i due giovani nasce un sentimento d’amore anche in un clima di divieto assoluto a sfiorarsi anche con un semplice sguardo. Hafez, spinto da un irrefrenabile bisogno di esternare sentimenti profondi, si cimenta nella scrittura di poesie d’amore, che dedica alla sua allieva. Mentre, la dolce Nabat non esita a porre al suo “insegnante” sconcertanti quesiti filosofici. Per Hafez questa situazione di disobbedienza, nel rispettare il controllo e la riservatezza delle proprie umane emozioni, lo porterà ad essere protagonista di uno scandalo di carattere religioso. Ritenuto traditore, spogliato di tutto ciò che possiede, compresi gli affetti a lui più cari, come quello della madre, Hafez deve rigenerare la sua anima di peccatore, purificarla attraverso le sette prove dello specchio, nella ricerca della somma verità. Il maestro Jalili costruisce nella narrazione un’abile comunicazione letteraria su simboli, forme rituali, accenti caratterizzanti la cultura dell’Iran, in un formalismo scenico che conquista e convince. Più volte la simbologia dell’acqua, elemento purificatore, rigenerante del corpo peccatore, è rappresentata in scene sostenute da una straordinaria fotografia. L’accento sulla ritualità del “dono”, espressione di profondo rispetto e di alleanze nella cultura dell’Islam, Jalili lo esprime con grazia e discrezione recitativa. La sintesi nel messaggio del regista si coglie tutta nella valenza del misticismo del culto religioso islamico, nel suo impatto sulla sfera sociale e collettiva, definendo modi e aspetti di un’identità strutturata nelle sue credenze più profonde. Il film è quindi un valido documento di rappresentazione culturale, tra richiami a diversità identitarie tribali ed espressioni mistiche individuali e di gruppo. Il montaggio scenico a tratti lascia interdetti sulla chiarezza del contesto narrato, ma questo punto a sfavore si riscatta per la maestosità delle scene di forte impatto emotivo.


(recensione di Rosalinda Gaudiano )

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