GRINDHOUSE - A PROVA DI MORTE
 

Grindhouse recensione

 
Progetto collettivo volto a restituire l'esperienza delle “grindhouses”, sale cinematografiche statunitensi in cui dalla fine degli anni '60 all'inizio degli anni '80 venivano proiettati più film di exploitation in sequenza, Grindhouse ha avuto uno scarso successo commerciale negli USA, che ha fatto sì che i produttori dividessero il film per molti mercati esteri. Così, ci siamo ritrovati nelle sale un Death proof più lungo di mezz'ora, senza alcuna traccia – per ora - del film diretto da Robert Rodriguez né dei famigerati “finti trailer” che intervallavano i due film nell'edizione originale. Posto che Death proof è un oggetto difficile da cogliere se privato del sopracitato contesto, e che a tutti noi non può che dispiacere del barbaro sezionamento di un progetto così interessante, non si può nascondere che ogni minuto in più di questo film -  
 
tra cui una splendida scena di lap-dance e un lucidissimo “intermezzo” bianco/nero – è un minuto di cui possiamo essere lieti. Death proof infatti, al di là delle aspettative (per le quali si poteva pensare, come probabilmente accadrà nel segmento di Rodriguez, ad un divertente giochetto citazionista tra amici, vacuo e fine a se stesso), è davvero molto di più: è un cinema che riesce ad essere da una parte profonda-  
mente radicato nella tradizione di “puro genere” a cui appartiene e vuole appartenere, ed essere allo stesso tempo un film assolutamente teorico. In questo senso, proponendo un magistrale “passaggio di consegne” in un contesto atemporale e sospeso (i giradischi e gli SMS, le Dodge e l'iPod), sa riflettere con pochissimi elementi sulla natura stessa del cinema di genere, e del cinema tutto. Sta allo spettatore, meglio se smaliziato, scegliere su quale percorso incanalare la propria visione: ma molto probabilmente quello più diretto, proprio come un pugno, è anche quello che dà più soddisfazione. Visto così, Death proof è un teso e grandissimo racconto lineare sull'immagine del sottobosco americano, sulla infinita e sempre rinascente reiterazione delle sue ossessioni di sesso e morte, riconoscibile per via dei soliti dialoghi chilometrici e delle solite impennate di violenza ma capace ancora una volta di demolire le attese dei sapientoni. E costruito, come ormai quasi nessuno oserebbe più fare, intorno a due singole scene-madri. Un incidente mortale, preparato con magistrale cura della tensione scenica e visto, come da tradizione tarantiniana, da quattro punti di vista diversi – la prima . Un incredibile inseguimento finale, lungo tutta una vita e da inserire immediatamente in qualunque antologia sull'argomento, durante il quale è davvero impossibile stare fermi sulla poltrona – la seconda. Tutto il resto – come le cento citazioni e le mille autocitazioni – può essere anche preso come una cornice: sopra un periodo in cui il cinema langue un po' dappertutto, Death proof si staglia come un'autentica perla di cinema, ineccepibile e sperimentale, intellettuale e carnale, in egual misura, di cui non possiamo che essere grati.

(recensione di Francesco Chignola )

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