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Sventola la bandiera americana sul portico di casa ma l'america non c'è più. Il vecchio quartiere del vecchio reduce di guerra non esiste più, ormai colonia di immigrati coreani, messicani, cinesi e africani. Quando si dice il destino: prima i musi gialli li combattevi in Corea e adesso te li ritrovi in massa come vicini, a scorazzare per bande lungo le strade, su macchine truzze con l'alettone e lo stereo a palla, a spadroneggiare in casa d'altri. Ma anche gli americani, quelli veri, non sono migliori. Non sono migliori i tuoi figli, né tantomeno i nipoti con il chewing-gum e il piercing all'ombelico, senza nessun valore se non quello del profitto, lontani, al sicuro in esclusivi villaggi residenziali, con lo schermo al plasma 42 pollici, l'I-phone e il suv in garage. Mica una Ford Gran Torino. Altra macchina, altri tempi. Fin dalle prime inquadrature Eastwood ci |
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racconta senza mezzi
termini la progressiva e inesorabile deriva della società contemporanea, giunta al punto di non ritorno, una società divisa, violenta e violentata, ignorante e irrispettosa, priva di qualsiasi esempio a cui tendere o a cui credere. Il suo sguardo lucido si pone sul mondo e non gli piace quello che
vede. Dall'alto del suo metro e novanta e delle sue 79 primavere (dio ce lo conservi), può |
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permetterselo. Non gli piacciono la chiesa, gli immigrati, lo stato, nemmeno se stesso. Gran Torino forse non sarà il capolavoro che molti hanno decretato (con Eastwood la critica è sempre molto benevola). E' un film non perfettamente calibrato, con una parte centrale che si dilunga in facezie laddove si richiedeva un crescendo narrativo e una parte drammatica che esplode prevista le cui dinamiche appaiono meccaniche, forse troppo circoscritta per consentirle di raggiungere uno spessore reale, quasi che la vicenda si riducesse a un semplice fatto privato. Alla fin fine la giustizia in qualche modo trionfa ma lo dice lo stesso Eastwood che "non c'è niente di giusto". E questo nonostante ognuno di noi abbia sperato in un finale alla per un pugno di dollari quando si solleva il poncho a svelare l'arcano (al cuore Ramon) o come ne gli spietati quando estrae la pistola e li fa secchi tutti (chi è il padrone di questo cesso). Ma là era il Western. Qui è la realtà. Eppure con la schiettezza e la semplicità di sempre Eastwood getta ancora macigni dal peso specifico notevole, come solo un uomo dalla morale integerrima può fare, e centra ancora il bersaglio. In un'epoca di relativismo di pensiero per cui si accetta tutto, ma anche di perbenismo baciapile per cui non si può dire nulla altrimenti c'è sempre qualcuno che si offende, Eastwood sembra l'unico a sapere ogni volta da che parte stare, l'unico a saper distinguere con la naturalezza di chi possiede semplicemente buon senso la differenza tra bene e male. Sembra rimasto l'unico che possa dire "mongolo" senza preoccuparsi di urtare la sensibilità di chicchessia, o più in generale possa esprimere tutte le più sacrosante idiosincrasie senza essere tacciato di razzismo. Lo può dire perché è sincero. Perché le parole di per sé non significano niente. Perché bisogna andare oltre le apparenze. Ciò che fa di un uomo un uomo è il saper pensare, pertanto il suo unico scopo è quello di pensare bene, di pensare rettamente. L'unica differenza è questa, tra chi sa usare la testa e chi no, tra chi sa pensare individualmente e chi invece si rifugia nel branco. Eastwood può dire "muso giallo" o "sporco negro di merda" ma anche "stupido italiano impastapizza" perché sa che i pregiudizi esistono ma anche che gli steccati si possono abbattere in un attimo. Solo così può andare incontro all'ora fatale con la fermezza interiore di chi sa cosa è giusto. Per Film Tv è la sua "moral guidance". Lo è anche per noi.
(di Mirko Nottoli)
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