GRACE IS GONE
 
locandina grace is gone

recensione: grace is gone

 
“Grace is gone” ha tutti i meriti (e i demeriti) del film indipendente made in Usa promosso dal Sundance Film Festival (in questo caso Premio del pubblico e Miglior sceneggiatura). Uno degli aspetti più riusciti è senza dubbio il saper affrontare un tema complesso e (ormai) abusato come la guerra in Iraq in modo estremamente delicato e struggente al tempo stesso. Strouse immerge la macchina da presa in una qualunque (e qualunquista) famiglia media americana: due figlie piccole, il padre Stanley, commesso in un centro commerciale, la madre, Grace, soldatessa in Iraq (dove perderà la vita). E poi consueta e rassicurante villetta con doppio ingresso, staccionata, giardino e utilitaria. Ma proprio la morte di Grace creerà una spaccatura sempre più intollerabile, sempre più non ricomponibile. E l’America, da paese costellato di candide  
 
ideologie e giovani eroi, prenderà sempre più i contorni di un grande vuoto, di un’assenza crudele destinata a rimanere a girare in tondo. L’on the road che Stanley intraprende con le figlie dopo la morte della moglie diventa presto un modo, triste, per misurare questa immensa solitudine (il ragazzo che balla davanti allo schermo di una sala giochi deserta) e assenza di senso che è, ormai, l’America. Un’America   recensione grace is gone
ridotta a vendere sogni stantii e plasticosi per far dimenticare le brutture della contemporaneità (il giro sulle giostre all’Enchanted Garden, prima che Stanley riveli la verità alle figlie). John Cusack è davvero toccante nel suo dar vita a Stanley, piccolo americano impacciato e quasi tenero di fronte al dolore e ai colpi della vita. Così come Strouse è abile nell’affidare i momenti più significativi non alle parole, ma alle intercapedini tra gli sguardi, i silenzi, i sorrisi quasi solo immaginati: Stanley che “gioca” con la macchina in un campo di terra, Stanley che resta con la figlia più piccola in una casetta di plastica di un grande magazzino, il finale in riva all’oceano. Anche se sono diverse le titubanze: a cominciare da una colonna sonora didatticamente sentimentalistica (stentate note al pianoforte, timidi arpeggi di chitarra). E poi personaggi di contorno (lo zio pacifista John soprattutto) poco riusciti, e sottolineature futili (Rumsfeld in televisione, i riferimenti a Bush). “Grace is gone” resta, in ogni caso, un interessante piccolo film americano, dalle forti sensibilità, e tagliato in immagini rigorosissime, quasi algide nel loro voler raccontare il dolore dell’America senza spettacolarizzazioni, e senza titubanze.


(di Mattia Mariotti )


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