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La vita e le opere
di Hunter S. Thomspon
in un biopic dal taglio
originale, un po’
racconto un po’
cronaca, che ripercorre
le sue battaglie e
le sue bravate: il
primo romanzo sugli
Hell’s Angels,
la candidatura a sceriffo
di Aspen, il sostegno
a favore di MacGovern,
la dipendenza dalle
droghe, sino alla
crisi – interiore
e professionale –
che lo ha portato,
nel 2004, all’età
di 66 anni, a togliersi
la vita. “Gonzo”.
Cioè pazzoide,
bizzarro, imprevedibile.
Ma non solo: il “Gonzo
journalism”,
lo stile narrativo
inventato da Thompson,
è un resoconto
in parte giornalistico
e in parte fiction
che si caratterizza
per avere un taglio
molto personale e
soggettivo che rispecchia
fedelmente e in modo
dichiarato il modo
di vedere e di pensare
di chi racconta. E
ha un equivalente
in alcune tecniche
di ripresa, in cui
l’operatore
è coinvolto
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nell’azione
e non
è
semplicemente
un osservatore
passivo.
Questa
è
l’opera
e la
vita
di Hunter
S. Thompson.
Questo
è
l’approccio
usato
da Gibney,
documentarista
d’inchiesta
e politico
(suo
il film
sul
caso
Enron),
che
racconta
le gesta
di un
uomo
eccezionale
–
troppo
personaggio
per
essere
normale,
troppo
vero
per
essere
felice
–
e, al
contempo,
descrive
l’America
e il
suo
declino,
dai
focosi
e turbolenti |
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anni Sessanta,
sino alla
deriva imperialista
che ne connota
il presente.
Thomspon era
un uomo irascibile
e contraddittorio,
devoto al
culto delle
droghe e maniaco
delle pistole,
pacifista
e guerriero,
tradizionalista
e inveterato,
patriota e
ribelle. Un
grande giornalista,
che ha saputo
raccontare
il suo tempo,
descrivendo
il sogno americano
e il suo declino.
Con tantissimo
girato originale
e molti resoconti
di amici e
nemici, Gibney
gli dedica
un doveroso
ed autentico
tributo, lasciando
chi guarda
con l’amaro
in bocca per
la sua morte
improvvisa.
Un addio,
che tuttavia
lascia dietro
di sé
un’eredità
immortale.
Delle sue
opere, e della
sua personalissima
visione delle
cose, si può
riportare
una frase,
citata nel
film grazie
alle immagini
di “Paura
e delirio
a Las Vegas”
di Terry Gilliam,
che rimane
una delle
migliori descrizioni
del movimento
hippy, come
l’incarnazione
perfetta del
sogno americano,
e la più
indovinata
figurazione
di come quel
sogno sia
stato tradito:
“San
Francisco
in the middle
sixties was
a very special
time and place
to be part
of. (…)
But no explanation,
no mix of
words or music
or memories
can touch
that sense
of knowing
that you were
there and
alive in that
corner of
time and the
world. Whatever
it meant.
(…)
There was
madness in
every direction,
at any hour.
(…)
You could
strike sparks
everywhere.
There was
a fantastic
universal
sense that
whatever we
were doing
was right,
that we were
winning…And
that, I think,
was the handle
- that sense
of inevitable
victory over
the forces
of Old and
Evil. (…)
We were riding
the crest
of a high
and beautiful
wave. So now,
less than
five years
later, you
can go up
on a step
hill in Las
Vegas and
look west,
and with the
right kind
of eyes you
can almost
see the high-water
mark, that
places where
the wave finally
broke and
rolled back”
(H. S. Thompson,
Fear and Loathing
in Las Vegas).
(di Dario
Bevilacqua
)
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