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GIRLS ON THE AIR - RECENSIONE |
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Locandina "girls on the air" |
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girls on the air - recensione
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“Violenza, paura e terrore sono le uniche parole che ho sentito ripetere dai media negli ultimi anni, da quando l’Afghanistan, improvvisamente sulle pagine di tutti i giornali, è entrato anche nella mia vita. Parole che creano solo un’incolmabile distanza. Sono partita per l'Afghanistan, un paese dove anche il più piccolo frammento di democrazia era stato completamente distrutto, per incontrare Humaira e le sue colleghe di Radio Sahar, un esempio unico, secondo me, di quello che forse si può considerare l’inizio di un processo democratico all’interno del paese, di una democrazia che nasce dal basso, di una informazione che si occupa di chi voce non ha. In Afghanistan infatti la radio è sempre e solo stata la voce del governo; non ci sono esempi di radio libere e partecipative, non una tradizione di informazione legata ai reali |
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bisogni della comunità quale è invece la missione di Radio Sahar”.
Parole di Valentina Monti, regista, tra l’altro, del documentario Radio La Colifata (2005), responsabile ora di Girls on the air, che parte dalla figura della giornalista venticinquenne Humaira, nata e cresciuta in Afghanistan, per raccontare di un paese molto diverso dagli stereotipi che i media hanno contribuito a creare nell'immaginario occidentale. |
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Fondatrice nel 2003, in seguito alla caduta del regime talebano, di Radio Sahar, stazione FM comunitaria e indipendente con l'obiettivo di portare informazione nel posto, schiacciato dall'analfabetismo e dalla povertà, Humaira si fa simbolo di questa diversità e complessità, trasmettendo dalla città di Herat, vicino al confine tra Afghanistan ed Iran. Al suo fianco, un manipolo di giornaliste donne che, con i chador mossi dal vento, si avventurano nelle zone più rischiose della città, nei tribunali della corte di giustizia, con i microfoni e le cuffie nei villaggi di fango arsi dal sole, raccontando i contrasti di un paese segnato dalla violenza sulla figura femminile e dagli attacchi dei kamikaze, dove è ancora possibile trovare nell'umorismo, nella poesia e nel sogno, le armi interiori di sopravvivenza. Armi interiori di sopravvivenza la cui importanza, nel corso dei circa 62 veloci minuti di visione – impreziositi dalla fotografia di Alessio Valori e dal montaggio curato a quattro mani da Ilaria Fraioli e Matteo Spigariol – emerge non poco dalle parole della protagonista (tra l'altro, afferma che quello della poesia è un mondo di pace e bellezza), per la quale il più grande desiderio è sempre stato quello di poter dire la verità in un paese dove essa è sempre stata repressa. Testimoniando, oltretutto, che la radio è il miglior mezzo di comunicazione nelle realtà che soffrono economicamente, mentre si viene spinti a riflettere sul significato di democrazia; perché, come conclude la regista: “In Afghanistan ho dovuto veramente ascoltare e fare un passo indietro rispetto a quello in cui ho sempre creduto; Humaira un giorno mi ha detto che democrazia non è una parola della lingua afghana, ma bensì una parola straniera, facendomi riflettere che forse anche il nostro modello occidentale di democrazia, se non compreso, diventa immediatamente una imposizione”.
(recensione di Francesco Lomuscio )
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