FUGITIVE PIECES
 

recensione fugitive pieces

 
Con quel che è stato, l’Olocausto costituirà un tema di cui non si finirà mai di parlare nei lavori filmografici. In “Fugitive Pieces”, un film di Jeremy Podeswa (tratto dal libro di Anne Michaels), presentato alla Festa del Cinema di Roma, in concorso nella Sezione “Cinema 2007”, l’Olocausto esiste come tematica, ma resta come scenario di fondo, da cui emergono coscienze mutilate, animi lacerati. “The Fugitive Pieces” è la rappresentazione, in tutto tondo, di una tragedia umana che non cesserà mai di essere ricordata nel tempo. Jakob Beer (Robby Kay-da bambino, Stephen Diliane-da adulto), bambino polacco, durante il secondo conflitto mondiale assiste, nascosto in un armadio, alla carneficina di tutta la sua famiglia per mano di soldati nazisti. Jakob riesce a sfuggire alla cattura, vaga per la foresta, fino al momento in cui un  
 
archeologo greco di nome Athos (Rade Sherbedgla), si accorge della sua presenza e lo prende con sè. Alla fine Jakob avrà un posto importante negli affetti di Athos, e viceversa. I due instaureranno un rapporto schietto di reciprocità affettiva ed anche di aiuto per superare la memoria di momenti di vita devastanti. Jakob, crescendo e diventando adulto, cercherà comunque di avere una vita  
normale, ma i ricordi del passato lo tormenteranno sempre. Il suo grande sfogo sarà scrivere tutto ciò che ossessiona la parte più profonda del suo animo. Jeremy Podeswa dirige un altro film straordinario, intenso, suggestivo, vero e corale. E lo realizza avvalendosi di una scrittura perfetta, che ha un percorso esplicativo chiaro ed estremamente convincente. Podeswa, in “Fugitive Pieces”, articola una struttura narrativa a più livelli paralleli, con il preciso intento di focalizzare le possibilità e la volontà che l’essere umano, violentato gratuitamente nel corpo, nell’anima, negli affetti, mette in atto per superare ed accettare comunque di vivere mutilato nei sentimenti. La memoria corrosiva di un passato che si ripropone senza sosta nel presente, dando voce ai silenzi, agli sguardi, alle paure e agli incubi nella comune quotidianità, costituiscono la mappa dei tratti per esplorare i drammi della coscienza di Jakob, la sua incapacità a comunicare. Un film drammatico, che, nonostante tutto, porge un messaggio positivo, nella ricerca, sia da parte di Jakob che dello stesso Athos, di sensazioni autentiche ed edificanti, indispensabili a ricomporre il puzzle interrotto della speranza alla vita. Poleswa, riesce alla perfezione a ricostruire quel sentiero vitale illogicamente interrotto, contrapponendo la forza del bene che esiste nella certezza di nuovi affetti, alla memoria della violenza subita. Una regia estremamente misurata ed attenta, una fotografia suggestiva ed a tratti emozionante, dialoghi di profondo significato costruiti su registri pacati, abili movimenti di macchina, costituiscono la forma riuscita di questo film, in cui non si cade mai in eccessi di emozioni forti, anzi, si riesce a mantenere, dall’inizio alla fine, un lucido e magistrale distacco emotivo.


(recensione di Rosalinda Gaudiano )

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