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Se volessimo immaginare
un’età
d’oro per quell’horror
violento all’americana,
il cui apice siede
a cavallo tra gli
anni ‘70-‘80,
ci accorgeremmo che
l’eredità
lasciata, a parte
quei rari lumi brillanti
di originalità
propria, si traduce
sempre più
spesso in un infastidito:
“è già
stato detto/scritto/filmato”,
o meglio ancora in
un: “non sanno
più cosa inventarsi”.
Bene. Ma prima di
etichettare ‘Frontiers’
di Xavier Gens, distribuito
dalla Moviemax, come
mero combustibile
per la fucina insaziabile
dei fan di genere,
o come intrattenimento
macabro per quel pubblico
disabituato che vuole
passare novanta minuti
a torcersi le budella,
c’è da
rilevare che il panorama
in cui nasce (quello
francese pregno di
una cinematografia
d’autore e intimista)
e il modo scevro da
pretese attraverso
cui si presenta, custodiscono
degli elementi validi
per riuscire, se non
ad annoverarlo |
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nell’olimpo
degli
ottimi
survival
horror,
quanto
meno
a lasciarlo
galleggiare,
naufrago,
nel
mare
della
sufficienza.
Sorvolando
sulla
trama,
lineare
in maniera
imbarazzante
e costruita
su un’architettura
ricorrente
(un
gruppo
di ragazzi
in fuga,
un ostello
sperduto,
un nucleo
familiare
che
si autoalimenta
di morbosità),
‘Frontiers’
si propone
come
un amalgama
distratto
di citazioni.
Tanto
da chiedersi
se la
presenza
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sovrabbondante
di scene cult
in ‘prestito’
da altre pellicole
(Cronenberg,
James Cameron,
Tobe Hooper
per citarne
alcuni), non
sia in realtà
il tentativo
di costruire
un mausoleo
a un modo
di fare cinema
di cui il
regista si
propone araldo:
le montature
veloci e accelerate
‘pulp’,
le vertiginose
inquadrature
a mano e in
soggettiva,
la pellicola
che finge
di saltar
via veloce
imponendo
repentini
scarti di
scena, sono
tutti elementi
che nocciono
allo svolgersi
dell’azione,
perché
già
visitati e
abusati nel
tempo. Senza
contare poi
i modi consueti
in cui la
carneficina
si esaurisce,
la tipizzazione
riconoscibile
dei personaggi
o quella suspense
che non riesce
a raggiungere
mai il climax
necessario
per dare frutti.
Pochi elementi
colpiscono
piacevolmente.
Da un lato
la posizione
della vicenda
su uno sfondo
sociale, un
pretesto di
storicità
che restituisce
attendibilità
agli avvenimenti
controbilanciando
il disagio
politico,
dei quattro
sfortunati
in fuga, all’ideologia
opposta che
sarà
loro ‘padella’
e loro ‘brace’.
Dall’altra
una colonna
sonora versatile,
stilisticamente
mutevole,
capace di
sintetizzare
e proporre
motivi diversi
sempre ottimamente
funzionali
alle scene
che accompagnano.
Soprattutto,
però,
ci sarebbe
una lode piena
alla protagonista,
Yasmine (Karina
Testa), per
essere riuscita
a presentare
egregiamente
sullo schermo
la costante
pressione
psicologica
alla quale
il suo personaggio
è destinato
(una donna
ormai votata
alla stessa
animalità
bruta che
fuggiva),
se solo anche
lei, nei minuti
precedenti
l’epilogo,
non sfociasse
quasi nel
ridicolo,
o almeno nell’esilarante.
‘Frontiers’
sembra una
bomba inesplosa,
con tanti
elementi a
guarnirne
le parti,
nessuno dei
quali però
sviluppato
a sufficienza.
Un tentativo,
se non altro,
coraggioso
di imporre
un gusto diverso
nel panorama
della cinematografia
impegnata
francese.
Cui, tra le
altre cose,
la storia
attribuisce
la fondazione
del genere
con ‘Le
manoir du
diable’
di Georges
Méliès
del 1896:
simpatica
coincidenza.
(di Marco
Trani )
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