FORSE DIO E' MALATO
 

recensione forse dio è malato

 
Il libro di Veltroni (bello, brutto, importante, inutile?) in realtà resta un’eco lontana. Taviani conficca la propria mdp fin nel profondo dell’Africa, e dei suoi insostenibili dolori: abusi sui minori (accusati spesso di stregoneria o arruolati a forza negli eserciti ribelli), diffusione dell’AIDS, povertà, violenza. Ma per raccontare ciò Taviani evita accuratamente di cadere nella sindrome da “turista del dolore” tipica, per esempio, di Meirelles (“City of God”, “The constant gardener”), rifuggendo da ogni estetizzazione e da ogni vuota volontà di rappresentazione. Taviani sceglie di schiacciare la macchina direttamente contro la realtà, che poi è fatta di occhi troppo bambini e troppo tristi, di sorrisi stanchi, di sguardi che vorrebbero essere di speranza ma proprio non ce la fanno (come racconta la sequenza finale dell’emigrante). Così  
 
anche quando si ricorre alla messa in scena, lo si fa affidandosi a protagonisti “veri”, come il bambino che racconta, e appunto inscena, il proprio rapimento da parte dei ribelli. L’attento e misurato lavoro di Taviani zoppica solo quando ci si fa prendere da una certo desiderio di poetizzazione, di sottolineatura non richiesta e non necessaria. Come nel caso dei numerosi (troppi) passaggi cantati accompagnati da retro-  
proiezioni piuttosto dannose, che troppo ricordano i videoclip musicali anni ottanta. Altrove invece le immagini che Taviani riesce a fermare sono indimenticabili: raccontano di luoghi ultimi, impastati di lacerazioni inguaribili, tenerezza, asfissia morale, speranze solo sussurrate. Come l’hotel coloniale di un tempo mastodonticamente rifinito di scaloni, sale da ballo, terrazze trasformato in baraccopoli in cui si può morire per niente. O come gli sguardi dei bambini di fronte allo schermo innalzato nel nulla del deserto su cui scorrono le immagini in bianco e nero dei poveri che prendono il volo in “Miracolo a Milano”. Sono immagini che affaticano l’anima, e che lasciano inesorabilmente soli. Mentre l’ultima canzone ci racconta, con parole stanche, di farfalle che bruciano le ali contro il sole. Requiem per l’Africa. Requiem per la nostra coscienza, troppo lontana, troppo al sicuro.

(recensione di Mattia Mariotti )

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