FLAGS OF OUR FATHERS
 

flags of our fathers recensione

 
Come una foto può far vincere una guerra. Non tutti ricorderanno l’isola di Iwo Jima ma lo scatto dei marines americani che innalzano la bandiera stelle e strisce di sicuro sì. “Flags of our fathers” ovvero quando Clint Eastwood incontra Steven Spielberg. Il risultato è un film che sa coniugare la spettacolarizzazione un po’ cialtrona di “Salvate il soldato Ryan” al rigore austero e amaro dell’autore di “Million dollars baby”. Purtroppo i film di guerra, che descrivano il Vietnam, la seconda guerra mondiale o l’Irak, sono sempre accompagnati da un profondo senso di dejà vu, come se della guerra si sia già stato detto e mostrato tutto: gli orrori, la follia, la morte, gli arti mozzati, le granate che esplodono, il sangue che sprizza, la fotografia virata d’antico. Inoltre tutti gli sforzi per renderli immuni da una certa fastidiosa retorica che dei  
 
valori marziali si ciba e prospera, sembrano vani. Eastwood dal canto suo ci prova ad eludere l’ostacolo, sfrondando, sottraendo, non indugiando su ralenty e musiche solenni, evitando esaltazioni di atti eroici e sacrifici. E quasi ci riesce. Perché a ben vedere “Flags of our fathers” più che un film bellico è un film storico che si fa film politico e di denuncia. Sempre al centro della narrazione che procede  
saltando da un flashback all’altro, la famosa fotografia (poi premio Pulitzer), scattata per caso da Joe Rosenthal, una foto che immortala un atto senza alcun valore, l’innalzamento di una bandiera quale simbolo della presa di Iwo Jima. Così fu recepita e spacciata dai mass media e subito se ne approfittarono i palazzi di potere: i sei soldati immortalati furono prelevati dal fronte e trasformati in eroi, portati in tour promozionale per gli States come delle star in cerca di offerte per finanziare la guerra. In realtà quella bandiera fu una seconda bandiera sostituita ad una prima perché troppo piccola, piantata durante il quinto giorno di una battaglia che sarebbe continuata per altri 35, sollevata da sei marines presi a caso che la ripresa di spalle rende irriconoscibili. Ma alla propaganda servivano sei nomi per sei eroi e così fu. Se poi non furono realmente i sei della fotografia poco importa, con buona pace dei morti ammazzati. E’ questo l’aspetto che più preme a Eastwood. L’evento bellico come pretesto per ricostruire dinamiche pericolosamente ricorrenti nella storia del mondo, le cui ombre si allungano anche sui giorni nostri: le bugie, l’ipocrisia, la strumentalizzazione dell’opinione pubblica, la manipolazione delle informazioni piegate a fini meschini, la fanfara della retorica che riempiendosi la bocca di paroloni vuoti gonfia i cuori di sentimentalismi tronfi e falsi. Ma quando la pubblicità è passata e i riflettori si sono spenti, rimangono i singoli uomini, con le loro coscienze, le loro solitudini, i loro sensi di colpa. Rimangono le storie individuali, quelle con la s minuscola, custodi di verità che quasi mai coincidono con la storia ufficiale, destinate a sparire insieme a chi ne serbava il ricordo. Rimangono le zone d’ombra, le sfumature, il fare i conti con se stessi e con gli altri. Non esistono eroi, esistono solo coincidenze. L’eroe vero è forse colui che sa conservare la propria integrità anche quando deve scendere a compromessi. Il cinema di Eastwood è un cinema fatto di uomini, di scelte da compiere e dubbi etici da sciogliere. La guerra è solo lo scenario da cui questi uomini possono emergere, più messi a nudo che altrove. Da qui, il tocco d’artista: la decisione di dirigere un altro film, uguale e contrario, sempre sulla battaglia di Iwo Jima ma stavolta ripreso dalla parte dei giapponesi. Che si può dire ancora? 76 anni, alcune opere già immortali, un pugno di premi oscar, dichiarata riconoscenza infinita a Sergio Leone, Clint Eastwood è un mito vivente. Punto. Personalmente non riesco, a fine film, a vedere il suo nome apparire sul grande schermo senza, ogni volta, commuovermi un po’.

(di Mirko Nottoli )

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