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Locandina "Fair Game" |
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Fanatismo religioso, fobie collettive, colleghi infami e politica sporca. Nel suo terzo duetto cinematografico, la coppia Sean Penn - Naomi Watts deve vedersela con un nemico straordinario: non le solite contingenze negative che insidiano la relazione di turno di un copione-tipo (niente amanti ossessivi, figli ribelli o crisi di mezza età), ma un controverso, machiavellico ingranaggio politico innescato niente meno che dalla Casa Bianca. Valerie Plame (la Watts), agente segreto della CIA, ha la brutta trovata di smascherare un feticcio del primo mandato Bush: l'Iraq dotato di armi nucleari e pronto al fuoco che giustificò la "guerra infinita" americana del post-11 settembre.
Scoperta la falsità dell'accusa, per la Plame iniziano i guai. Il marito Joe Wilson (un volitivo Sean Penn), ex ambasciatore in Africa, sbugiarda i pettegolezzi da Sala Ovale su |
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un presunto traffico di uranio arricchito tra Iraq e Niger. E la vita di un'onesta famiglia americana, una cellula di
immacolata middle class dell'East Coast, va a rotoli. L'identità dell'agente Plame finisce in testa alle flash news, Valerie viene licenziata e il suo matrimonio inizia a scricchiolare. E' l'irruzione del macroscopico nel quotidiano, il tornado politico che spazza via la quiete domestica. E' anche il primo, vero confronto di |
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una spia con i limiti della propria condizione, con la fallibilità del proprio sdoppiamento. Fair Game , sfornato da un fortunato club di produttori - tra cui il Bill Polhad di Brockeback Mountain e Into the wild e i padrini di Rat Race Jerry e Janet Zucker - e diretto da Doug Liman, già mente dei vari The Bourne e dell'esplosivo tandem Pitt-Jolie di Mr e Mrs Smith , non è semplicemente un film "politico". Non è la stenografia di un intrigo internazionale: racconta piuttosto l'ingerenza del pubblico nel privato, il gioco subdolo delle oligarchie che stravolge la vita del singolo. La voce fuori campo degli "uomini del Presidente", il borbotttio della propaganda, lo stolido "j'accuse" di Bush jr. al finto arsenale di Saddam e allo spauracchio dell'Islam terrorista, riempiono ogni pausa tra un dialogo e l'altro, si insinuano nei litigi, nelle coccole ai bambini, nelle cene con gli amici. La martellante, ritmata incursione dell'America collettiva nell'America privata, è il vero dramma di Fair Game . Sean Penn ricicla la concentrazione ispirata da paladino della verità rodata in tre decenni di personaggi emblematici e sofferti, con un'attenzione particolare alla spia federale di The Interpreter. Naomi Watts, più ingessata del solito, è ancora una volta un'eroina seriosa e lacerata, che ingabbia una natura instabile dentro colori algidi e sguardi polari. Il duo è splendido, ma non esce dal seminato. A Fair Game , nonostante la recitazione magistrale e la sbandierata retorica legalista, manca l'originalità narrativa che proietta la denuncia sociale nella dimensione ideale della fusione dei generi. A metà tra il vessillo ideologico e il melodramma privato, il film di Liman paga forse la (voluta) aderenza alla vera storia di Valerie Plame e di suo marito, raccontata dai protagonisti nei pamphlet autobiografici Fair Game e The Politics of Truth . Un giuramento di fedeltà alla Storia recente, ancora così prossima e bruciante, che obbliga la sceneggiatura a una certa rigidità e concede pochi margini alla caratterizzazione dei personaggi. Dai quali non si è preteso quello spessore romanzesco, quella duttilità caratteriale, che fanno grandi le icone del cinema. E che resteranno lì, nel limbo delle pellicole di buon livello, a scontare la loro verità. E il loro impegno a difesa delle giuste cause.
(la recensione di Elisa Lorenzini )
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