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E' fuori di dubbio che l'uscita di "District 9", prodotto da Peter Jackson e diretto da uno specialista degli effetti visivi, Neill Blomkamp, sia accompagnata da grande attesa e curiosità, non solo per i cultori del cinema di fantascienza. Basato sul cortometraggio del 2005 "Alive in Joburg", realizzato dallo stesso regista, il film affonda in scenari fantastici e inquietanti, documentando con camera in movimento un mondo impazzito e frenetico, forse prossimo all'apocalisse, se pur collocato temporalmente nel nostro recente passato; quanto basta per scuotere un pubblico sempre più alla ricerca di eccitazione da grande schermo, ora che il fatidico 2012 è ormai alle porte. Un milione di alieni, accampati in un distretto/baraccopoli, sono alle
prese con un'operazione xenofoba organizzata dalla Multi-National United, società privata che di fatto li |
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gestisce insieme alle loro armi; si tratta del tesferimento dei visitatori in una sorta di campo di
concentramento, nel mancato rispetto dei fondamentali diritti concessi agli immigrati umani. Il direttore delle operazioni sarà tuttavia contagiato da un fluido extra-terrestre, quindi inizierà ad assorbire il dna alieno e a trasformarsi progressivamente in qualcosa di sconosciuto, diventando vero e proprio oggetto di ricerca da
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laboratorio. La pellicola è retta su una visione registica originale, su uno stile che può definirsi "ultrarealistico", poiché documenta e immortala una realtà che non esiste. Blomkamp prende dunque le distanze dalle precedenti opere di fantascienza, preferendo una narrazione aderente ad un presente sempre più adrenalinico, bombardato da una comunicazione cruda e invasiva. Siamo in un mondo parallelo ma di fatto vicino al nostro, almeno nelle intenzioni del regista. Non trascurando la forza della novità e l'abilità nel dirigere scene vorticose e impegnative, la commistione tra fiction e reportage, tra azione e pseudo documentario non convince. Lo spettatore è sballottato, scosso, invaso dalle informazioni a raffica, ma tutto questo, accompagnato da visioni immaginarie e improbabili, non favorisce una piena immedesimazione. A maggior ragione poiché la trama non è esente da incongruenze narrative: non si capisce come gli alieni possano rendersi comprensibili agli uomini (il tutto andava per lo meno approfondito) o perché non abbiano utilizzato le armi in loro possesso in una situazione di emergenza o per lo meno fatto valere la loro superiore forza fisica. Proprio per questa relativa verosimiglianza perdono di credibilità i sentimenti dei "gamberoni", viene a perdersi quel valore aggiunto di emotività che, mancando una valenza metaforica, come afferma lo stesso Blomkamp (si sarebbe invece potuto approfondire la tematica dell'immigrazione e dei conflitti con il diverso) avrebbe potuto garantire un salto di qualità. Probabilmente un passo indietro rispetto alla sinteticità e alla riservatezza di "Alive in Joburg", un abisso dall'emozionante e mai dimenticato ET.
(di Lucio De Candia)
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