DIARIO DI UNA SICILIANA RIBELLE
 

- recensione -

 
“Sono cresciuta più in fretta del tempo, e a detta di chi mi stava vicino avevo giudizio da vendere”. Sembra proprio l’ideale epitaffio della diciassettenne Rita Atria (donna di mafia collaboratrice di Giustizia), tratto da una frase del suo diario. Quelle pagine, oltre alle deposizioni da lei rese, alle interviste alla cognata Piera Aiello - collaboratrice anch’essa - e agli inquirenti che se ne occuparono (tra cui Alessandra Camassa, della squadra di Paolo Borsellino), le ha utilizzate il regista Marco Amenta, insieme a materiale di repertorio, nel documentario “diario di una siciliana ribelle”. Che ha ottenuto 21 premi internazionali ed è stato distribuito in 30 paesi. Da giovane fotoreporter, Amenta entrò presto in contatto con gli omicidi di Cosa Nostra. Appena maggiorenne, a seguito dell’uccisione dei giudici Falcone e  
 
Borsellino egli lasciò sconfortato la Sicilia alla volta di Parigi. Dove, ottenuta la laurea in cinematografia, realizzò corti e documentari (uno sulla guerra in Bosnia, uno su Cuba), e ha fondato la società Odissea, per la quale ha coprodotto e girato nel ’97 questa piccola ma esemplare, umana, preziosa testimonianza sulla breve e tragica vita della Atria, figlia di un boss di Partanna (piccolo centro in cui la guerra tra clan  
nel triennio 89-91 provocò 16 morti). Gli “uomini d’onore” le uccisero il padre, la fecero lasciare dal fidanzato (che in seguito fu incarcerato grazie alle rivelazioni di lei) e, dopo che nel ’91 ammazzarono anche suo fratello, la ragazza decise di passare dalla parte della Legge. Consapevole che, nel suo ambiente, chi in precedenza lo aveva fatto era stato ritrovato morto dentro un sacco, in fondo a un pozzo. E infatti venne rinnegata e poi minacciata dalla madre, dalla cugina e da altri ignoti. “La mia risposta fu che non avevo paura”, scrisse, e cominciò lucidamente a pensare al proprio funerale, immaginandolo con poca gente e senza madre. Preda di un incolmabile vuoto interiore, nel rimpianto che non sarebbe riuscita ad essere amata e felice. La sua testimonianza portò a numerosi arresti, e durante il processo fu definita, nell’arringa dell’avvocato difensore degli imputati, “ragazzina dalla personalità patologica”. Arrivarono quindi delle premonizioni, come quando per l’esame di scuola le assegnarono un tema sulla recente morte del giudice Falcone. In esso, emerge una sua visione pessimista e sognatrice già evidente nel diario, dove da un lato - vedendo la mancanza di mezzi dell’antimafia – scrisse di “scemi che combattono contro i mulini a vento”, ma dall’altro sentiva che “al di fuori c’è un altro mondo dove sei quello che sei non perché figlio di qualcuno o perché hai pagato per avere qualcosa”. Rita, trasferita a Roma per sicurezza, aveva trovato casa a Viale Amelia. Ma dopo l’uccisione di Borsellino (in via Amelio, ecco un altro segno) si convinse che fosse la fine di tutto.

(di Federico Raponi )

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