DARATT
 

daratt recensione

 
Le cose semplici, si sa, sono sempre le migliori. “Daratt”, il nuovo film dell’africano Mahamat-Saleh Haroun, è così: semplice, diretto, poeticamente efficace nell’ esporre tematiche delicate e più che mai attuali. Dal 1965 ad oggi, in Ciad, una guerra civile ha mietuto innumerevoli vittime. Il nuovo governo, lontano ancora dal controllare la totalità del territorio, decide di concedere l’amnistia a tutti i criminali di guerra. Atim (Ali Bacha Barkai), sedici anni, riceve una pistola dalle mani di suo nonno per andare a cercare l’uomo che ha ucciso suo padre. Il ragazzo si incammina verso il villaggio di N’Djamena e presto localizza il carnefice del genitore. Si chiama Nassara (Youssuf Djaoro), ha messo su famiglia e vive onestamente facendo il fornaio. L’ex criminale, porta ancora con se i segni delle violenze subite durante gli anni  
 
vissuti da militante: è muto e una grossa cicatrice alla gola gli ricorda continuamente che anche lui è, in fondo, solo una vittima. Atim, determinato comunque ad ucciderlo, avvicina l’uomo facendosi assumere come panettiere apprendista. Con il passare del tempo fra i due nasce uno strano rapporto: malgrado la sua ritrosia, Atim sembra trovare in Nassara la figura paterna che gli è sempre mancata; da parte sua  
Nassara scopre nell’adolescente un potenziale figlio. Un giorno gli propone di adottarlo. Questo è in poche parole “Daratt”, ovvero “stagione secca”: film scarno senza fronzoli estetici, se non la consapevole scelta registica di non usarne affatto. Colonna sonora quasi assente, dialoghi ridotti al minimo, macchina da presa a mano mai invadente ed un continuo gioco di sguardi, silenzi, sfioramenti, sono tutto ciò che serve al regista per descrivere con sconcertante intensità il Ciad oggi. La scelta minimalista operata, volutamente sostituisce il lato pittorico dell’immagine a favore di una esibita teatralità dei personaggi e dei loro rapporti fisici. Attenzione però, nella pellicola non si racconta un contesto socio-politico, non si racconta la guerra. Quella che ci viene proposta è invece una riflessione circa le conseguenze umane, emotive ed affettive che un lungo conflitto porta con se. Come afferma lo stesso Haroun: a livello narrativo “interessa rappresentare il paesaggio dopo la tempesta”. Situazioni drammatiche ma anche, a volte, paradossali come la storia di amore e odio fra Atim e Nassara, dove il prevedibile diventa imprevedibile e dove i cattivi possono diventare buoni. Allora un'altra riflessione bisogna necessariamente fare: si può parlare ancora di perdono dopo tanto odio? Viceversa, che senso ha ancora la vendetta? Il tempo trascorso non sembra aver risparmiato nessuno, ognuno porta con se le sue cicatrici esteriori e interiori. La solitudine di entrambi non porterà sicuramente a nulla ma forse il duro lavoro, l’insegnamento dell’arte del pane può essere per tutti e due un momento di comunione e perché no di riconciliazione. Premio speciale della giuria a Venezia nel duemilasei, “Daratt” ha vinto anche il Tanit d'argento alle ultime JCC di Tunisi e la menzione speciale al Festival d’Amiens, confermando l’apertura del cinema africano a tematiche non più solamente locali ma, finalmente, universali.

(recensione di Massimiliano Micci )

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