COUS COUS
 

recensione cous cous

 
La differenza tra film riusciti e film indimenticabili pertiene ad una dimensione paradossalmente soggettiva. Eppure fortunatamente la maggior parte di chi ha già visto “Cous Cous” di Abdellatif Kechiche è riuscito a coglierne i connotati di capolavoro puro, brillante e sporco come poche opere della settima arte. All’ultimo festival del cinema di Venezia “La graine et le mulet”, questo lo splendido titolo originale che allude al cous cous di cefalo, è stato accolto da lunghi applausi alla proiezione in Sala Grande e da una lode pressoché unanime della stampa. Ciononostante in testa alle preferenze della giuria è andato “Lussuria” di Ang Lee. Al film franco-tunisino è invece stato assegnato il Premio Speciale della Giuria (tra l’altro condiviso in ex-aequo) e il Premio Marcello Mastroianni alla brava Hafsia  
 
Herzi. Ironia della sorte la stessa sfida si ripresenta nelle sale di questo inizio 2008: i due film in competizione anche fuori dal festival. Difficile pensare che “Cous Cous” possa battere al botteghino il danaroso e glamour film cinese, ma noi consigliamo di vederli entrambi e di provare a scorgere proprio quella differenza tra film riuscito e film indimenticabile cui si accennava sopra. “Cous Cous” racconta le  
vicende di Slimane Beiji, operaio di origine maghrebina che, dopo essere stato licenziato dal cantiere navale dove ha lavorato per 35 anni, decide di reinventarsi ristoratore. Così prende una bagnarola malridotta e la trasforma in couscousseria, con l’aiuto dell’ex moglie, dei figli, dei figliastri e della comunità di Sète, porto della Francia meridionale dove è ambientato il film. I rapporti familiari sono tanto difficili quanto veraci, immersi in discussioni estenuanti e silenzi saggi. E il sapore contaminato di cibo e salsedine si insinua tra l’integrazione parziale e le lamentele femminili di un popolo che calcola ancora i prezzi in franchi e vive di litigi inutili e risate a bocca aperta. Kechiche, regista di “Tutta colpa di Voltaire” e “La schivata”, costruisce in “Cous Cous” una dialettica di primi piani mai vista prima d’ora, che testimonia un talento visivo unico e personale. La macchina da presa malferma, che marca i personaggi prendendoli e perdendoli in continuazione, c’immerge in un mondo di orgoglio e malinconia, in cui il silenzioso farsi una moka di caffé diventa emozionante come una poesia di Elitis. L’attesa di un piatto che non arriva mai si innalza ad emblema eroico ma dimesso di una difficoltà palpabile, che non ha bisogno di essere cantata ma che si mostra da sola in tutta la sua pesantezza. Così come l’assistere ad una danza del ventre improvvisata e troppo lunga o il tentativo di recuperare un motorino rubato possono animare percorsi narrativi dotati di una carica travolgente. Carica alimentata dalla bravura di attori non professionisti, in grado di dar vita ad una coralità a metà strada tra De Oliveira, Cassavetes e Neorealismo italiano. Kechiche ha definito il film «il genere di storia che si sente raccontare nei paesi, il mito di “quelli che ce l’hanno fatta”[…]. È un racconto d’avventura, in cui la narrazione è più vicina all’oralità». Noi aggiungiamo che è proprio di questa autenticità che si sente la mancanza in tanta produzione contemporanea. Ma c’è comunque chi va al cinema in continuazione per trovare almeno un solo film in tutto l’anno che possa dare quella sensazione di pienezza e profondità che solo le opere d’arte sanno donare. Questo può essere quel film.

(recensione di Marco Santello )

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