vicende di
Slimane Beiji,
operaio di
origine maghrebina
che, dopo
essere stato
licenziato
dal cantiere
navale dove
ha lavorato
per 35 anni,
decide di
reinventarsi
ristoratore.
Così
prende una
bagnarola
malridotta
e la trasforma
in couscousseria,
con l’aiuto
dell’ex
moglie, dei
figli, dei
figliastri
e della comunità
di Sète,
porto della
Francia meridionale
dove è
ambientato
il film. I
rapporti familiari
sono tanto
difficili
quanto veraci,
immersi in
discussioni
estenuanti
e silenzi
saggi. E il
sapore contaminato
di cibo e
salsedine
si insinua
tra l’integrazione
parziale e
le lamentele
femminili
di un popolo
che calcola
ancora i prezzi
in franchi
e vive di
litigi inutili
e risate a
bocca aperta.
Kechiche,
regista di
“Tutta
colpa di Voltaire”
e “La
schivata”,
costruisce
in “Cous
Cous”
una dialettica
di primi piani
mai vista
prima d’ora,
che testimonia
un talento
visivo unico
e personale.
La macchina
da presa malferma,
che marca
i personaggi
prendendoli
e perdendoli
in continuazione,
c’immerge
in un mondo
di orgoglio
e malinconia,
in cui il
silenzioso
farsi una
moka di caffé
diventa emozionante
come una poesia
di Elitis.
L’attesa
di un piatto
che non arriva
mai si innalza
ad emblema
eroico ma
dimesso di
una difficoltà
palpabile,
che non ha
bisogno di
essere cantata
ma che si
mostra da
sola in tutta
la sua pesantezza.
Così
come l’assistere
ad una danza
del ventre
improvvisata
e troppo lunga
o il tentativo
di recuperare
un motorino
rubato possono
animare percorsi
narrativi
dotati di
una carica
travolgente.
Carica alimentata
dalla bravura
di attori
non professionisti,
in grado di
dar vita ad
una coralità
a metà
strada tra
De Oliveira,
Cassavetes
e Neorealismo
italiano.
Kechiche ha
definito il
film «il
genere di
storia che
si sente raccontare
nei paesi,
il mito di
“quelli
che ce l’hanno
fatta”[…].
È un
racconto d’avventura,
in cui la
narrazione
è più
vicina all’oralità».
Noi aggiungiamo
che è
proprio di
questa autenticità
che si sente
la mancanza
in tanta produzione
contemporanea.
Ma c’è
comunque chi
va al cinema
in continuazione
per trovare
almeno un
solo film
in tutto l’anno
che possa
dare quella
sensazione
di pienezza
e profondità
che solo le
opere d’arte
sanno donare.
Questo può
essere quel
film.
(recensione
di Marco
Santello
)