CONTROL
 
locandina control

recensione Control

 
Claustrofobico. Senza via d’uscita. Proprio come la giovane esistenza del cantante dei Joy Division, morto suicida nel 1980 all’età di ventitre anni. Ian Curtis, amava la musica, innanzitutto. Le droghe, l'alcol, le ragazze. La moglie, Deborah, sposata troppo giovane (lei sulla loro storia ha scritto un libro, "Touching from a distance: Ian Curtis and Joy Division", sul quale il film si è basato). E la figlia, Nathalie, arrivata all'improvviso. Come il successo. E come la morte. Alla vigilia del tour americano, Curtis è allo stremo delle energie psico-fisiche e inoltre la sua giovane moglie ha deciso di lasciarlo. E’ probabilmente questa la goccia che fa traboccare il vaso: nella sua vecchia casa di Macclesfield, un sobborgo di Manchester, spento il primo canale della televisione (che quella sera aveva trasmesso La ballata di Stroszek di Herzog) egli trascorre qualche ora in  
 
solitudine e all’alba del giorno dopo si impicca. Un film sulla musica ma non per questo un film musicale. Testimonianza di una band che con soli tre album, in un breve lasso di tempo, ha cambiato la storia della musica rock inventando un nuovo genere, chiamato in Italia Dark. Secondo la produzione il film è girato in bianco e nero per mostrare le tensioni all’interno della band. In realtà è proprio la fotografia in b/n a   recensione control
conferire alla pellicola quel tono cupo e inquietante caratteristico del gruppo di Manchester, con i suoni gelidi e geometrici della loro musica, la voce liquida e i testi sconsolati del suo leader poeta. Rimasto nella storia per quel modo speciale di muoversi sul palco: l'imitazione delle crisi epilettiche di cui Ian Curtis soffriva. "Il grande male", scriveva nei suoi diari giovanili, trasformato finalmente in un incredibile show. Il titolo del film fa riferimento ad una delle più celebri canzoni dei Joy Division ” She’s lost control”. Il titolo della canzone si pensa racconti la storia di un'amica di Curtis, anch'essa sofferente di epilessia, la ragazza morì in una clinica di Manchester per colpa delle sue continue crisi. Dopo la sua morte il cantante scrisse la canzone. Fu lo stesso Curtis a cambiare il nome della band da Warsaw a quello definitivo, ispirato a quella zona (la Joy Division, appunto) all'interno della quale - nei campi di concentramento - venivano rinchiuse le donne destinate a diventare le prostitute dei capi nazisti. Anton Corbijn, il regista del film, è stato un fan dei Joy Division e ha atteso tutta la vita di dirigere un film sulla vita di quel giovane che aveva fotografato all’inizio degli anni ’80. Dopo aver diretto video musicali per band come i Nirvana, U2, Nick Cave e concerti come il Devotional tour per i Depeche Mode, finalmente ha potuto realizzare il suo progetto. Ian Curtis è interpretato, con incredibile somiglianza mimetica, dal ventisettenne Sam Riley, cantante del gruppo indie 10000 Things, così che nelle sequenze in cui il gruppo suona non si fa uso di playback. Notevole anche Samantha Morton nel ruole della moglie di Curtis. Sconosciuti tutti gli altri interpreti tranne Joe Anderson, recentemente visto nel bellissimo "Across the universe", nel ruolo del bassista della band. Colonna sonora mozzafiato, oltre ai classici dei Joy Division troviamo: David Bowie, Lou Reed e i Sex Pistols. Il regista preferisce lasciare parlare i testi originali, capaci di esprimere, con la loro lucida disperazione, lo stato d’animo del protagonista meglio dei pochi dialoghi. Il maggior merito della pellicola rimane sicuramente quello di aver trattato un argomento tanto delicato e facilmente idealizzabile con un certo pudore, senza cedere alla tentazione di farne un’opera visionaria o di eroicizzare la vita di quello che era, né più né meno, un piccolo gruppo musicale nella profonda provincia inglese guidato da un ragazzo insicuro e sommerso dalle responsabilità, con i suoi pregi e difetti, forse semplicemente troppo sensibile. Corbijn osserva solo in superficie, non scava, non pretende di dare risposte perché non ne ha e con questo film sembra volersi interrogare ancora.

(recensione di Moira Chiani )

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