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recensione capitalism a love story
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Per chi non l'avesse ancora capito il capitalismo è un sistema economico fallimentare (ma probabilmente l'unico attuabile). A dimostrarglielo, che è fallimentare (per l'attuabilità vedremo), da un lato c'è la recente crisi che tutti dicono essere passata manco fosse un raffreddore e dall'altro il nostro prode Michael Moore che sarà tutto quello per cui l'accusano - fazioso, demagogico, populista - ma se non ci fosse bisognerebbe inventarlo. Patria per eccellenza del capitalismo, gli USA, of course. Bersaglio preferito degli strali di Moore, gli USA of course, qui paragonati, nell'incipit del documentary, all'antica Roma crollata sotto il peso della corruzione, degli sperperi, dello sfruttamento della schiavitù, del divario tra ricchi e poveri. Fatte le dovute proporzioni i nuovi aristocratici sono i general manager, gli schiavi i milioni di |
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precari che si dividono tra un
fast food e un call center, le armi di distrazione di massa se là erano le arene dei gladiatori qua sono il calcio o il football. La love story del titolo non è totalmente ironica infatti la storia d'amore tra capitalismo e United States per un po' ha funzionato, tanto che gli Stati Uniti sono diventati com'era un tempo Roma caput mundi. Poi però qualcosa s'è incrinato, la piccola crepa |
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che alla lunga fa crollare la diga in una manciata di secondi. Lucido come al solito nelle sue disamine Michela Moore individua la crepa, e di conseguenza l'inizio della fine della storia d'amore, nell'elezione a presidente di Ronald Reagan. Da lì le lobby, le multinazionali, lo strapotere delle banche. Le armi di Moore sono quello che conosciamo: l' ironia, il sarcasmo, la leggerezza che sa farsi greve quando si tratta di scavare in profondità, di andare sul campo in prima persona e immortalare storie e facce di una verità disarmante. Storie e facce piccole, impotenti, rappresentative di una condizione ben più diffusa di quanto i mass media ci mostrino. Facce come quelle della famiglia che viene cacciata di casa, ma assunta e pagata per ripulirla prima di andarsene. O come quella della vedova quando scopre che la morte del marito ha fatto guadagnate all'azienda per cui lavorava un bel po' di soldi avendo l'azienda stipulato in segreto un'assicurazione sulla sua vita. Facce di una massa silenziosa costretta a subire senza possibilità di replica. In più, rispetto ai lavori precedenti Capitalism evita sia quei gesti plateali un po' discutibili - come portare un gruppo di malati a Cuba per farli curare - sia i numerosi siparietti comici la cui assenza dona al film un peso specifico in fatto di autorevolezza maggiore. Viene però meno anche quella struttura dialettica fatta di domande e risposte, obiezioni e confutazioni, che consentiva alle precedenti pellicole di configurarsi come una riflessione che si dispiegava nel suo farsi. Capitalism invece appare come un qualcosa di più statico, a metà tra un lungo servizio di cronaca e un film di denuncia. Moore continua a portare prove a suo carico ma senza effettuare un vero discorso che progredisca. Anzi il discorso finisce per rimanere sospeso perché Moore sembra non voler spingersi fino in fondo nella ricerca delle ragioni ultime. Per cui ok, il capitalismo è il male assoluto ma il perché il capitalismo abbia così attecchito non viene nemmeno sfiorato. Nella lotta tra ricchi e poveri quello che Michael Moore non vuole arrivare a dirci - e allora sì che l'accusa di populismo ci sta - è che la differenza è solo un fatto di risultati, di posizioni e di conoscenze. L'avidità del broker in sostanza non è troppo diversa dall'avidità per la quale il poveraccio investe in borsa e perde anche quel poco che ha. O per la quale chi
perde la casa la perde perché si è fidato di un consiglio, l'ha rifinanziata ed è rimasto fregato. Uno vince e l'altro perde, ma il punto di partenza non è dissimile. C'è solo chi è più bravo e chi meno, chi ci riesce e chi no. Ma se si accetta questo terreno di scontro, se si accetta di far parte di un sistema che non ha scrupoli il cui unico scopo è la rincorsa alla ricchezza, non ci si può lamentare. Per dirla in maniera semplice, con le parole del protagonista di un noto romanzo di Philiph Roth, "guarda che tutto quello che i comunisti dicono del capitalismo è vero, e tutto quello che i capitalisti dicono del comunismo è vero. La differenza è che il nostro sistema funziona perché si basa su quella verità che è l'egoismo della gente, e il loro non funziona perché si basa su quella favola che è la fratellanza". Semplice no?
(di Mirko Nottoli)
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