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Come in “Uccelli”
di Hitchcock, anche
in “Black Sheep”
i meccanismi per generare
orrore e suspance
sono affidati a innocui
e di solito totalmente
inoffensivi animali.
Là passeri
e piccioni, qui addirittura
le placide pecore
dei pascoli neozelandesi.
A differenza di Hitchcock,
King opta per un registro
più orrorifico
ma anche più
divertito e beffardo.
Una vena di costante
ironia macabra percorre
l’intero film,
creando un’atmosfera
tesa e ridicola allo
stesso tempo. Anche
se spesso il divertimento
è ancorato
a taglienti freddure
sui luoghi comuni
della società
contadina neozelandese
(le emissioni di metano
degli animali, i coprisedili
per auto, la cucina
a base di frattaglie)
forse non completamente
accessibili (o quantomeno
non subito ricevibili)
per un pubblico europeo.
Resta l’interesse
per un film che osa
sul piano formale
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(si
potrebbe
parlare
di un
nuovo
genere,
l’”horror-comedy”)
per
provare
a raccontare
(com’è
nel
Dna
dell’horror)
l’incupirsi
del
presente.
King
ci parla
di clonazione
e di
frankesteiniani
esperimenti
zootecnici,
e di
come
questi
ci stiano
precipitando
in un
universo
dissociato
e pericoloso,
in cui
tutto
si contamina,
tutto
si ricrea
o si
distrugge
per
umano
interesse
o capriccio.
Portandoci
in luoghi
in cui
troppo
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spesso si
gioca a fare
Dio, per soldi,
per superficialità,
per vanagloria.
Le pecore
e gli agnelli
di King non
restano in
silenzio,
come nel film
di Demme (“The
silente of
the Lambs”),
ma belano
tutto il loro
orrore e la
loro disperazione.
Di fronte
ad un mondo
che si sta,
lentamente
e crudelmente,
macellando.
(di Mattia
Mariotti
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recensione del
film "Black
Sheep"! |
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