BITTERSWEET LIFE
 

bittersweet life - recensione

 
Piccolo, grande cinema d’oriente (leggi Corea) che si sta conquistando il mondo: dalle alte punte di Park Chan, l’empatico di vendetta per Mister e Lady e Vecchi Ragazzi e di Kim Ki Duck (Ferro3, La samaritana) alle inutili caverne di “Natural City” e “Sword in the Moon” (solo per citare due brutte pellicole) e molti altri ancora da citare. Arriva dopo un passaggio a Cannes 2005, il nuovo lavoro di Kim Ji-Woon (The Quiet Family, Two sisters) che naviga nella terra di mezzo: tra il manierismo più smaccato e la spontaneità. Il braccio destro di un boss, che stanzia in un lussuoso albergo, riceve l’incarico di sorvegliare l’affascinante ma (forse) fedifraga donna del Capo: deve andare fuori città e sospettoso, desidera che non venga persa d’occhio. L’ordine è di eliminarla senza tanti complimenti se colta in fla-  
 
grante. Quel che non si può prevedere accade e le carte in tavola voleranno in aria, trasformando la vicenda in un regolamento di conti tra novelli Iago e Otello vestiti come “Le Iene” e muniti di lucenti revolver. Rumoroso, esagerato tavolta sublime ma solo sul versante estetico perché con troppa enfasi si crogiola nell’esibizione di sparatorie videoclippate, scene grottesche made in Tarantino e ammucchiate  
di violenza gratuita. Indeciso tra la patinatura dell’accuratezza e lo sporco melodramma da gangster, barcolla su derive intimiste e surreali che non riescono a coinvolgere né a persuadere. S’inabissa compiaciuto nella girandola di citazioni a tutti i costi e chiude impunito, senza aver dosato correttamente (o scorrettamente) nessuno degli ingredienti disponibili, compresa l’ironia.

(di Daniela Losini )

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