BECOMING JANE
 

recensione becoming jane

 
Dopo Beethoven, con il film della Holland, ecco profanata con sciatteria e disimpegno anche la figura della scrittrice Jane Austen. Il film vorrebbe raccontare non gli ultimi istanti, come avveniva per Beethoven, ma al contrario gli inizi. La giovinezza, i primi passi in equilibrio sugli abissi teneri di un’adolescenza ipersensibile, sospesa tra sguardo sottile e ironici distacchi. Tema interessante, soprattutto se rivolto a indagare la genesi e i tormenti della scrittura, la sua schiavitù dolce e avvolgente, i suoi riflessi malinconici. Ma tutto ciò viene presto abbandonato dal regista televisivo Jarrold. Viene abbandonato perché non è vendibile (in questo la TV è ottima e severissima madre). E allora non stupisce che ogni volta che la pagina scritta entra nella storia (Jane che declama passi dai suoi romanzi) Jarrold si affretti a sfumare la  
 
voce in stucchevoli profluvi di archi e ritornelli. E ha ragione: oggi chi legge più? Chi mai si metterebbe, soprattutto tra chi ha meno di quarant’anni, a leggere per davvero i romanzi così inquieti ed esigenti della Austen? E poi chi mai si appassionerebbe a una vita trascorsa tra suggestioni letterarie, docili tranquillità campagnole, alacre lavoro sulla parola fino a una morte prematura? Molto meglio una storia  
d’amore (quella della Austen per il giovane Tom è appartenuta più a una sfera astratto-intellettuale, ma fa niente), molto meglio rimpinguare gli occhi dello spettatore con sguardi ammiccanti, sottintesi morbosetti (ma non troppo), e una regia sovraeccitata da videoclip adolescenziale. Con inquadrature sghembe di balconi pieni d’edera, di sottane di merletto, di stivali lucidi mossi a ritmo di improbabili danze. E poi inquadrature che si susseguono veloci (nei primi venti minuti non durano più di due secondi l’una), come se fermare l’occhio della mdp, anche solo per un istante (e spesso, come per i bei paesaggi, ce ne sarebbe assai bisogno), potesse gettare nel panico lo spettatore. Senza tenere conto che la sensuale Anne Hathaway come Jane Austen è credibile come Di Caprio nella parte di Kafka. Anche sotto questo punto di vista «The Hours» resta lontanissimo termine di paragone: il volto dolente, lo sguardo perso in amarezze venute da troppo lontano della Kidman resta uno dei più toccanti e credibili tentativi di raccontare la scrittura e i suoi timidi protagonisti.

(recensione di Mattia Mariotti )


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