BABEL
 

babel recensione

 
Nel Marocco più povero e desolato due giovanissimi pastori ricevono dal padre un fucile per sparare agli sciacalli. Un pullman di turisti americani sta passando, uno dei due prende la mira e poi lo sparo, preciso ed inesorabile come quello di un cecchino. Susan è stata colpita ad una spalla. Curarla sembra un’impresa impossibile, lì, in mezzo al nulla. Lei è il marito Richard hanno lasciato a casa, a San Diego, i due figli Mike e Debbie (Elle Fanning, sorella della più famosa Dakota) con la domestica messicana Amelia. Amelia non può mancare al matrimonio del figlio a Tijuana e decide di portare con sé anche i bambini. Nel frattempo a Tokyo, una ragazza sordomuta passa un periodo difficile. Vuole perdere la verginità a tutti i costi, si droga e si ubriaca. Cosa lega le storie l’una all’altra? Di fatto molto poco: appena un espe-  
 
diente drammarturgico. Eppure sembrano fatte per vivere in simbiosi, congiunte da un montaggio alternato che le disgrega e le salda contemporaneamente. E la tensione non cede mai. Anzi aumenta a dismisura, senza che quasi ce ne si avveda, come un fiume quando prende potenza nei pressi di una cascata. L’ansia, la solitudine, l’amore si incarnano nelle azioni dei personaggi, dispersi in una Babele di lingue, che  
è anche Babele di sentimenti. Premiato come miglior regista a Cannes 2006, Alejandro González Iñárritu ha fatto centro anche questa volta. Dopo i pluripremiati “Amores perros” e “21 grammi”, qui la sua arte arriva a dei livelli davvero notevoli. In grado di lavorare con apparente facilità sullo spazio/tempo cinematografico, il cineasta messicano approfondisce il concetto di confine, di limite, articolandolo in un discorso complesso e allo stesso tempo intuitivo. C’è da dire che le armi al suo pugno sono affilate. Scenografia, montaggio e musiche sono stati affidati a ricercatissimi premi Oscar®; in particolare, il montatore Stephen Mirrone (“Traffic”) sembra addirittura infallibile. Anche gli interpreti convincono, soprattutto Adriana Barraza nei panni della domestica Amelia. Unico sottotono appare Brad Pitt, che non riesce a reggere il confronto con la brava Cate Blanchett. “Babel” è un film toccante, profondo e originale, che merita attenzione, specialmente in un momento storico in cui differenze e confini sono trattati con semplicismo ed esiziali schematismi. Male, invece, il doppiaggio italiano; soprattutto quello dei personaggi messicani (Gael García Bernal in primis), il cui accento fintissimo sembra più bergamasco che ispanico.

(di Marco Santello )

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