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C'era una volta Baarìa, una strada polverosa, una chiesa, terra bruciata dal sole. Ora c'è Bagheria, un paese venuto su senza un piano regolatore, caotico, disordinato, brutto. Raccontare la propria storia, il proprio passato, il proprio mondo ormai scomparso, cogliere lo spirito di un'epoca che ci vide bene o male protagonisti è aspirazione che innerva qualsiasi narratore. Al passato torna spesso, con ossessione quasi ingenua, Giuseppe Tornatore. Stavolta però non si accontenta della metonimia, non vuole guardare come già aveva fatto dal buco della serratura di un singolo episodio su cui far riverberare anche il resto, stavolta vuole raccontare tutto, in maniera speculare. Lo dice fin dal titolo, Baarìa, senza se e senza ma. Lo fa forse nel modo più semplice e più pericoloso, frammentando il racconto, moltiplicando |
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i personaggi, seguendo una linea solo vagamente narrativa perché per raccontare tutto devi mostrare tutto. Allora si procede per flash rapidi ed ellissi. A rendere ancora più complicata la cosa sono le solite due dimensioni, quella spaziale e quindi sincronica e quella temporale e quindi diacronica. C'è insomma da raccontare uno spazio, un luogo fisico, geografico, Baarìa, Palermo, la Sicilia e c'è da |
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raccontare un tempo
che ovviamente avanza, più o meno 60 anni di storia politica e sociale italiana costretta a sfilare per la via centrale di un paese che è troppo piccolo per contenerla tutta. Baarìa è un film che forse sarebbe dovuto durare 5 ore, come Novecento di Bertolucci, ma paradossalmente è un film che non regge alla distanza. La prima ora è uno spettacolo, quando c'è da rievocare il passato tra leggenda e malinconia, Tornatore dà il meglio di sé, i tempi sono calibrati ad arte, e ogni volta che Morricone attacca a suonare sono brividi lungo la schiena. Poi però il gioco si fa troppo scoperto, viziato da uno schematismo rigido e ripetitivo, con il tempo che passa e gli stessi personaggi, sempre loro sempre negli stessi luoghi, solo con i capelli via via più bianchi e le rughe posticce che in faccia aumentano. Il meccanismo smette di funzionare quando si comincia a capire dove si va a parare, che lì si è e lì si rimane, quando ci si avvicina ai tempi presenti e all'elegia, alla dichiarazione d'amore subentra una vena polemica che sa di qualunquistico "si stava meglio quando si stava peggio", col solito carico di illusioni infrante e sogni perduti, l'assessore all'urbanista cieco, le mazzette, un espediente linguistico con cui contrapporre il prima e il dopo che sembra lasciare il tempo che trova. L'affresco è grandioso ma si sa che più le dimensioni aumentano più diventa difficile mantenere le giuste proporzioni, concentrarsi sul centro senza dimenticare i margini, raccordare in maniera unitaria i molteplici piani prospettici. Tornatore ci prova ma perde qualche pezzo per strada, qualcuno lo recupera, qualcuno ce lo infila dentro a forza, finge di non sapere che non si può comparare passato e presente semplicemente perché uno è filtrato e l'altro no, uno è poetico e l'altro è prosaico. All'affresco grandioso concorrono due protagonisti, Francesco Scianna e Margareth Madè, oltre ad uno stuolo di facce note che partecipano come in processione, da Ficarra e Picone a Aldo Baglio, da Salemme a Luigi Lo Cascio, da Gullotta a Michele Placido, da Faletti a Raoul Bova, da Frassica a Monica Bellucci in una delle sue migliori performance.
(di Mirko Nottoli)
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