ACHILLE E LA TARTARUGA
 
locandina achille e la tartaruga

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Non saranno pochi coloro che troveranno nell'ultima opera di Kitano, "Achille e la tartaruga" la summa autobiografica della sua arte e (forse) il suo definitivo capolavoro. Il cinema di Kitano è importante soprattutto perchè riesce a monopolizzare l'attenzione su ciò che lo spettatore si aspetta e al tempo stesso sovvertire a suo piacimento le attese dei fans. Ha sicuramente molti pregi, e proprio l'imprevedibilità, una vitalità sfuggente e pazzoide, la capacità di lordare l'anima "pura" dello script, è una delle sue intuizioni maggiori. Kappa come l'alter-ego Beat Takeshi, conseguentemente al divertissment sperimentale di "Takeshis" e "Glory to the filmaker", Kitano realizza una definitiva consacrazione artistica della sua "trilogia" più sofferta e controversa, mettendo insieme spettacolo di second'ordine e  
 
(apparentemente) rigore stilistico-formale. Imbastisce perciò un falso biopic su se stesso, continuando a divertire (e irretire) lo spettatore convinto di dover porsi dei dubbi sulla veridicità dell'intera vicenda, a cominciare dalla trama iniziale: dove una sorta di tragico affresco familiare degno di certi noti cineasti nipponici (edward yang per es.) si trasforma, anche cromaticamente, nel più esasperante dilaniante   recensione achille e la tartaruga
e (auto)distruttivo apologo sull'incomunicabilità dell'arte e sulla sfida universale e atemporale dell'uomo (dalla nascita alla vita intera fino, sicuramente, alla sua morte). E' una rinascita, quella di "Achille e la tartaruga", risaltata dopo la presunta crisi dell'autore nella sua produzione più recente (da "Zatoichi" in poi diciamo). Una crisi che diventa l'ideale configurazione di un film "dadaista" per certi versi, dove ancora una volta l'abilità dell'autore è la capacità di generare inquietanti interrogativi esistenziali sullo sfruttamento delle risorse. Una sorta di "raccolta differenziata" che non tiene conto delle attese dello spettatore, quasi smarrito davanti alla commozione un pò furbetta innescata dalle vicende del bambino "che voleva imparare a dipingere" e al drammatico innescarsi di eventi luttuosi nella sua vita... un film che prima commuove e turba e poi spiazza, diverte, irrita e diventa stratificato, quasi come gli elementi usati dalle varie forme artistiche del protagonista, un Pollack della gente comune, vita e morte come definitivo e generoso atto d'amore (e di umiltà) verso gli spettatori. Diciamolo francamente, Kitano non ha nè qui nè altrove il dono della grande capacità narrativa, nè sembra interessato a cercarla: diventa perciò astratto quando sente il classicismo (la vicenda del bambino fino alla sua età adulta) diventare stretto per la sua urgenza espressiva. E di urgenza espressiva il film ne ha fin troppo: è la definizione Wellesiana dell'"F come falso", l'arte vera e presunta che si lorda a immagine sconcertante a cromatismo invadente a forma e materia per compiacere il limite dell'acquirente, che in fondo siamo tutti noi. Sembra di rivedere i colori di "Dolls" fusi tutti assieme, il paradosso giocoso di "L'estate di kikujiro" e - più distanti - gli amarissimi gangsters o poliziotti della prima fase della sua carriera. Un cinema da "raccolta differenziata", appunto, che riesce ad essere sperimentale e anti-artistico allo stesso tempo. La rappresentazione dell'arte diventa trasfigurazione di morte (v. il rosso sangue del volto coperto della madre dipinto dal ragazzino su una parete), o che finisce, attraverso l'estrema creatività dell'autore e del protagonista (ovviamente la stessa cosa) per vendere l'ultimo baluardo bruciato della sua esistenza, prima di un definitivo rogo. Abbiamo capìto che Kitano non potrebbe amarci e odiarci di più: un'esperienza creativa da raggiungere, sempre e comunque. Nell'attesa di spiegarci se l'arte può fungere anche da complemento visivo, e non solo creativo. Parlando di cinema, ovviamente.



(di Luca D'Antiga )


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