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recensione 28
settimane dopo
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28 giorni dopo (2002)
era stato un caso.
Con pochi mezzi, e
girando tutto in digitale,
Boyle aveva dato vita
ad una realtà
in precipitare, in
cui potere, orrore,
debolezza si impastavano
per risuonare in un
solo, squarciante
grido. La stessa lunga
sequenza iniziale
in una Londra deserta
con i suoi celebri
luoghi vitali abbandonati
per sempre era di
una forza visiva inaspettatamente
truce. Che cosa resta
di tutto ciò
nel sequel 28 settimane
dopo? Nulla. Tutto
si fa esposizione
pedante, bighellonata
truculenta e insapore.
Se prima le stesse
presenze infette erano
minacce che come lingue
di ombra si sparpagliavano
silenziosamente tra
i muri della città,
ora appaiono in tutta
la loro piatta “zombinità”.
Se prima i soldati
si trasformavano da
baluardo di resistenza
eroica contro i mostri
a nuovo orrore, ancora
più terribile
e senza fondo, ora |
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anch’essi
impersonano
tutta
la loro
scontatezza,
precipitando
presto
nello
stereotipo
da caserma
Usa.
Senza
tenere
conto
dei
numerosi
buchi
di sceneggiatura,
dei
salti
logici,
delle
continue
inverosimiglianze,
per
cui,
per
esempio,
due
ragazzini
riescono
senza
troppo
penare
a superare
le imponenti
misure
di sicurezza
dell’esercito
e recarsi
nella
zona
infetta,
o il
gruppetto
di sopravvissuti
riesce
a scampare
al |
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gas tossico
chiudendosi
in un auto
(!). Ma il
vero punto
di non ritorno
è la
sequenza in
cui il buon
soldatino
sopraggiunto
a dare manforte
fa strage
di infetti
sfruttando
le eliche
del proprio
velivolo.
Sequenza chiave
che dimostra
senza appello
come Juan
Carlos Fresnadillo
non abbia
compreso pressoché
nulla della
lezione di
Boyle, preferendo
finire a sguazzare
pacchianamente
nel sanguinolento
fracassone,
tra arti mozzati
e profluvi
di sangue
digitalizzato.
Il vero panico
lo si avverte
solo nella
scena finale:
gli infetti
hanno raggiunto
Parigi e il
continente.
Il che fa
presupporre,
ahinoi, un
seguito.
(recensione
di Mattia
Mariotti
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recensione del
film "28
settimane dopo"! |
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