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locandina 12

recensione: 12

 
Quasi cinquant’anni fa, Sidney Lumet esordì sul grande schermo adattando un lavoro teatrale di Reginald Rose. Ne uscì “La parola ai giurati” che, in barba alla freddezza spettatoriale che lo accolse, ha conosciuto gli esiti che tutti ricordiamo. Acuto courtroom movie, straordinario esempio di tenuta narrativa, l’opera di Lumet era anche, se non soprattutto, una fondamentale svolta liberal, una cartina al tornasole che smascherava le aporie intrecciate nelle maglie della middle-class americana. Rivisitazione, più che remake (come è stato impropriamente definito), “12” riprende quegli spunti e li riadatta con lo sguardo di Nikita Michalkov. Chiamiamola svolta pragmatica, parafrasando Odin, se consideriamo che resta fisso (o quasi) il testo ma cambia il contesto in cui esso viene incasellato. Non più un ragazzo mulatto, ma un ceceno accusato di  
 
parricidio. Non più l’America degli anni Cinquanta, ma la Russia contemporanea, immensa landa in cerca di un’identità, inevitabilmente sempre più contraddittoria, confusa, putiniana. A rappresentarla sullo schermo, ancora una giuria, rosa-campione della sua fauna umana, rappresentativa sineddoche che metaforizza le molte anime del presente sovietico. Con la piccolezza dei suoi ex-burocrati, l’ardore ottuso   recensione 12
dei suoi nazionalisti, gli infantilismi dei nuovi ricchi che, in questa Russia, sembrano moltiplicarsi come spore. “12”, francamente, non pare all’altezza del classico di Lumet. Imperfetto nei meccanismi della narrazione (non vive più nel rispetto delle unità aristoteliche, ma in un gioco reiterato di flashback temporali e allegorici); visivamente altalenante, indeciso tra il lirismo compiaciuto e sferzate più leggere, se non di dubbio gusto; lungo, eccome, ma di quella lunghezza che, nel suo aggiungere, nel suo ripetere, si fa ben presto prolissità. Tuttavia è un film che non può passare inosservato. Perché in esso si condensano le ambiguità di una cinematografia nazionale che cerca di guardarsi intorno, chiedendosi, interrogandosi, cercando risposte negli strascichi di un passato scomodo (le responsabilità, alla faccia di Michalkov e del suo “Sole ingannatore”, non sono solo di Stalin), nelle falle di un presente ostile e problematico, che fatica a recidere il cordone ombelicale che la lega a ingerenze meta-artistiche. Come Sokurov, anche Michalkov, con “12”, si conferma regista esistenziale più che politico, attento più che critico, preoccupato ma mai dissidente. È come se il cinema russo faticasse a raccontare i suoi fantasmi, come se le ferite fossero ancora aperte e bruciassero come carne viva. Sul conflitto ceceno, per esempio, sembra si stia cercando di riflettere (“Alexandra” è di prossima uscita), ma con perplessità che sembrano tanto reticenza. Dubrovka e Beslan, evidentemente, sono ancora bocconi difficili da mandar giù.

(di Lorenzo Donghi)


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