Piccola gemma di mezz’estate
'Willard'; diretto
da Glenn Morgan, tratto
da un romanzo di Gilbert
Ralston e remake di
una pellicola del
1971, 'Willard e i
topi'. Questa 35 mm
porta sugli schermi
la triste vicenda
di Willard Stiles
(Crispin Glover),
impacciato trentenne,
costretto a sopportare
una vita costellata
da continue umiliazioni,
senza un solo appoggio
su cui fare affidamento,
salvo una madre prossima
al trapasso e un’orda
di ratti sui quali
primeggia Socrate,
che, nella vita di
Stiles, diverrà
unica fonte di gaudio
prima e cagione di
vendetta poi. Avente
come fondamenta una
produzione di trent’anni
antecedente, dalla
quale si discosta
in numerose sequenze
e nel finale profondamente
ribaltato, questa
black comedy di Morgan,
a conti fatti, risulta
essere ben architettata
dal punto di vista
narrativo
e
poggiante
su di
una
regia
nervosa,
fatta
dalla
continua
alternanza
di campi
lunghi,
primi
piani
e piani
americani,
mescidati
con
un paio
di panoramiche
dall’alto
e diversi
grandangoli-soprattutto
nelle
sequenze
dello
scantinato.
Ampio
merito
della
buona
riuscita
va all’interpretazione
perfetta
di Crispin
Glover
il quale,
grazie
ad una
recitazione
nevrotica,
in piena
sintonia
con
la parte
affidatagli,
è
in grado
plasmare
le proprie
espressioni
sui differenti
stati d’animo
che lo attraversano,
con la malleabilità
con la quale
si maneggia
una maschera
di cera. Anche
narrativamente
il soggetto
di Ralston,
in parte rivisto
dalla sceneggiatura
dello stesso
Morgan, offre
degli spunti
interessanti
su cui dibattere.
In primis
Willard è
la storia
di un giovane,
figlio (e
schiavo) delle
proprie paure
‘familiari’;
secondariamente
Willard è
la vicenda
di un vendicativo
e sanguinario
assassino.
Nel complesso
la piece è
da una parte
un racconto
nero di doppia
identità
e dall’altra
la cronaca
di una trasformazione,
riecheggiante
tanto il 'Dott.
Jekyll e Mr.
Hyde' di Stevenson,
per quanto
concerne il
taglio narrativo,
quanto 'Gli
Uccelli' di
Hitchcock,
nell’impostazione
fobica di
alcune sequenze.
Il tutto ampiamente
rispecchiato
nella dicotomia
al vertice
della scala
dei roditori,
con Socrate,
bianco e solitario,
specchio dell’anima
candida e
Ben, nero
e a capo di
un esercito,
riflesso dell’anima
oscura del
paranoico
protagonista.
Il risultato
di questo
scontro? Inevitabile.
La morte del
lato buono
e il trionfo
di quello
malvagio è
-oltre ad
un richiamo
tanto del
Gollum di
Tolkien quanto
de 'Il signore
delle mosche'
di Golding-
la vittoria
del caos sull’ordine
ma soprattutto
l’apoteosi
della corruzione
spirituale,
simboleggiata
nella monomane
sequenza finale.
Anche il bianco
-il “nuovo”
Socrate- si
tinge di nero
dunque? Di
questi tempi
non poteva
essere altrimenti.