Un aereo cargo viene
inviato in Mongolia
per chiudere un campo
di ricerca petrolifera
e riportare lo staff
in America. Durante
la traversata si scatena
una tempesta di sabbia
di proporzioni gargantuesche
e l’aereo precipita.
La spettacolare sequenza
dell’atterraggio
coincide col picco
di adrenalina più
alto. Poi il resto
del film scivola liscio
e intorpidente districandosi
senza guizzi né
vere intemperie tra
la necessità
di rimanere vivi a
tutti i costi, la
fuga, il mantenimento
della sanità
mentale e crogiolandosi
in maschie dimostrazioni
di coraggio e determinazione
- vedi scontri coi
predoni famelici,
impolverate avversità
varie e tumulazioni
prevedibili per i
meno attenti alle
regole della sopravvivenza.
Qualche concessione
allo svago con un
po’ di musica
“very cool”
e qualche filippica
sulla necessità
di un obiettivo
per
vivere
e siamo
approdati
all’idea
centrale:
quella
di ricostruire
coi
pezzi
rimasti
del
velivolo
una
sorta
di aliante
a motore
che
li possa
riportare
a casa
sani
e salvi,
lontani
dalla
desolazione
delle
dune
inospitali.
Il ruolo
del
grillo
parlante
è
assegnato
a Giovanni
Ribisi
(in
versione
ossigenata
con
occhialino
e voce
petulante)
e, nel
ruolo
del
Capitano
duro
e puro,
lo splendido
cinquantenne
(in
forma
e
d’occhio)
Dennis Quaid.
Remake dell’omonima
pellicola
diretta da
Robert Aldrich
(padre di
William Aldrich)
girata a metà
degli anni
sessanta e
che aveva
come protagonista
James Stewart.
Il volo della
fenice: una
pellicola
artefice del
proprio destino
sin dal primo
fotogramma.