di colloqui
con personaggi
di ogni tipo:
la segretaria
piangente,
l’indignato,
lo scroccone,
il furbo,
l’inflessibile,
il parassita
ma il minimo
comune denominatore
è la
totale, desolante
assenza di
comprensione
reciproca.
Requisito
necessario
per ottenere
il fatidico
numero 25
da una parte
e salvare
o la capra
o i cavoli
dall’altra.
Significativo
è il
dialogo tra
il protagonista
e il direttore
delle vendite.
Da memorizzare
passo per
passo come
una sorta
di ammonimento
se per caso
vi viene la
voglia di
credere a
vostri dirigenti
quando vi
dicono siamo
come una grande
famiglia.
Un discorso
a parte è
il linguaggio.
Ne esistono
due. Uno è
quello burocratico
lavorativo
– poverissimo
– mutuato
dall’inglese
che dovrebbe
meglio spiegare
una posizione
lavorativa.
Direttore
del personale
non è
efficace come
Human Resources
Chief. Estremizzando,
Vaffan***
non rende
come F**K
It e nel lungometraggio
l’opzione
è indispensabile
per meglio
inserire lo
spettatore
nella realtà
che descrive.
L’altro
è quello
giovanilistico
che a mio
parere invece
spoglia i
dialoghi blindandoli
in un ambito
troppo limitante.
Questo è
un difetto
di peso, sempre
che non sia
voluto. Lo
archivio come,
discutibile,
arbitrio stilistico
del regista.
Alla pellicola
va riconosciuto
il merito
di essere
graffiante,
sincera. Non
bara. Non
mostra una
tangibilità
edulcorata
migliorando
la pessima
opinione che
abbiamo dei
protagonisti,
né
tenta di controbilanciarla
con atti di
generosità
nelle loro
vite private.
Questa considerazione
motiva anche
il titolo.
Pure nel finale,
intuibile,
non c’è
speranza.
La vita gira
così.
Non ci sono
buoni e cattivi.
Tutti si aggrappano
a qualcosa
per sopravvivere
e mi sa tanto
che ci somigliano
molto…
(di Daniela
Losini )
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