Dopo l’inopportuna
e pretestuosa soppressione
dal palinsesto notturno
di Raitre del suo
programma (più
o meno) satirico,
Sabina Guzzanti opta
per armi più
fini (se così
si possono definire),
dedicandosi al cinema,
e scrivendo un film
di denuncia sulla
sua trasmissione di
denuncia. Un’involuzione
di generi e espressioni
comunicative paurosa,
che dà però
vita al frizzante
“Viva Zapatero”,
film-documentario
di accusa/propaganda
che di tutto tratta
tranne che degli spagnoli
e del loro primo ministro.
La Guzzanti si rifà
agli ormai celeberrimi
film a tesi di Michael
Moore, costruendo
il documentario per
metà con interviste
realizzate ad hoc,
per l’altra
con sketch e parodie
ripresi dai suoi programmi
o da programmi di
satira internazionali.
La tesi che enuncia
si distingue in modo
netto nel film dal
(brutto) cinema di
Moore per due principali
motivi: il primo,
non
indifferente,
l’afferenza
della
Guzzanti
al mondo
della
satira
informativa,
tutt’altra
cosa
rispetto
al documentarismo
d’inchiesta.
Il secondo,
non
meno
importante
(anzi)
del
precedente,
è
l’autoreferenzialità
della
costruzione
del
prodotto
cinematografico.
Sono
questi
i due
aspetti
fondamentali
che
segnano
“Viva
Zapatero”,
al di
là
dell’enunciato
della
tesi
che,
rispolverando
argomenti
e teorie
un po’
lise
a dire
il vero,
si
concentra
sulla possibilità
di far televisione
e sul limbo
di confine
tra satira
e informazione
nel servizio
di Stato.
Il primo punto
su cui la
Guzzanti costruisce
(non si sa
quanto consapevolmente)
la sua identità
di cineasta,
smarcandosi
da facili
analogie con
un certo tipo
di documentarismo
d’assalto,
è la
sua identità
pubblica di
show-woman
del mondo
della satira
impegnata.
Ed è
dunque sull’impegno
che la regista
(o si dovrebbe
dire montatrice,
o protagonista?)
fonda il suo
film, creando
una dissonanza
tra il tono
con il quale
affronta (in
voice off)
la vicenda,
con la relativa
costruzione
dell’impianto
musicale e
sonoro, e
il materiale
che funge
da contenuto
vero del film,
materiale
che, raccogliendo
in gran parte
spezzoni di
programmi
satirici (di
casa Guzzanti
e non), non
si presta
agevolmente
ad un tipo
di lettura
seriosamente
militante.
Non si capisce
se sia una
dicotomia
cercata, ma
si avverte
un’inadeguatezza
del ritmo
delle immagini
rispetto al
tentativo
ricerca di
un tono pacato
e incedente.
Secondo punto
(a nostro
avviso, in
questo caso,
di debolezza)
interessante
nell’analisi
della costruzione
del film è
l’autoreferenzialità
del racconto
a tesi portato
avanti dalla
pellicola.
Essendo parte
in causa,
la Guzzanti
non esita
ad affiancare
alla sua tutte
le situazioni
di “precarietà
del posto
di lavoro”,
chiamiamole
così,
del mondo
televisivo,
ma non solo.
Finisce addirittura
per avocare
alla categoria
degli emarginati
dal potere
l’ottimo
Ferruccio
de Bortoli,
oggi silla
sella del
direttore
nel più
grande quotidiano
economico
italiano.
Esempio di
come l’analisi
della Guzzanti
sia in diversi
punti fumosa,
senza uno
scopo preciso,
pur venendo
aiutata da
interviste
imbarazzanti
(per gli intervistati)
dell’establishment
politico italiano.
La sequenza
(?) finale
è paradigmatica
di questi
due grandi
vizi (?) da
cui il film
trae linfa,
presentando
in maniera
drammaticamente
partecipe
e accorata
quella che
è stata
la grande
festa dell’Auditorium
romano nella
serata della
seconda puntata
del programma.
Un buon film
di propaganda,
che sarà
duro terreno
di scontro
fra le parti,
ma che non
aggiunge nulla
di nuovo né
di decisivo
nell’autunno
cinematografico,
se non per
un’eco
che con il
cinema (anche
quello veramente
politico)
non c’entra
nulla.