innesta
Trevor Retznik,
tormentato
dall’inizio
alla fine
dal suo vortice
di pensieri
e ricordi,
di immagini
e flashback,
verso quel
delirio esistenziale
che trova
requie solo
alla fine
del proprio
precipizio
personale.
Molto felice,
del resto,
si rivela
la scelta
del regista
di filtrare
solo alcuni
colori della
pellicola,
consentendo
così
di operare
una precisa
scelta cromatica
e di far emergere
quell’opposizione
tra chiaro
e scuro che
corrisponde
psicologicamente
all’animo
turbato di
Trevor (particolarmente
suggestive
le immagini
all’interno
della fabbrica,
tra manovali
circondati
da enormi
macchine,
spaventose
per i loro
congegni,
simili ai
macchinari
di una fabbrica
di inizio
secolo, il
tutto avvolto
in una tetra
atmosfera
di oppressione
e indifferenza).
E per non
mancare alla
lista delle
citazioni,
a far compagnia
al nostro
protagonista
si presenta
un amico che
assomiglia
alla brutta
copia del
colonnello
Kurtz che
Marlon Brando
ha immortalato
nei fotogrammi
di Coppola;
e questo personaggio
tanto misterioso
quanto angosciante
(specie per
quell’obbrobrio
di chirurgia
che gli ha
appiccicato
un alluce
al posto del
pollice di
una mano!)
diventa un’ombra
ossessiva
per il buon
Trevor fino
al catartico
finale della
vicenda (e
qui ci fermiamo
per non mancare
di rispetto
a chi deve
ancora vedere
il film).
Lo stesso
regista ci
ha voluto
mostrare di
persona un
altro dei
suoi riferimenti
culturali,
quell’idiota
dostoevskijano
che lo stesso
Trevor legge
nei momenti
di tregua
della sua
alienazione
mentale: che
egli sia la
proiezione
del principe
“buono”
o si identifichi
altrimenti
nell’alter
ego del personaggio
ansioso in
cerca di una
verità
nei meandri
della propria
coscienza,
comunque lo
consideriamo,
Trevor Retznik
viva la propria
condizione
di estraniato
dagli altri
e dal mondo,
in questo
mondo in cui
la presenza
di Dio è
ridotta allo
zero. Trevor
è distratto,
in un incidente
sul lavoro
per causa
sua un operaio
perde un braccio,
lentamente
incomincia
a inimicarsi
i propri compagni
in fabbrica,
perde l’amicizia
della prostituta-amica,
unica forse
con cui ha
un rapporto
vero, e poi
tutti gli
altri che
gravitano
intorno a
lui. Ma allora
è vero,
egli è
al centro
di questo
complotto,
e i bigliettini
che trova
di volta in
volta incollati
sul proprio
frigorifero
di casa sono
messaggi per
spaventarlo,
per farlo
crollare psicologicamente;
oppure la
sua altro
non è
che una costruzione
mentale, un’immaginazione
continua frutto
della paranoia?
Non ci resta
che comportarci
come la protagonista
(femminile)
del Sospetto
sempre di
Hitchcock,
sempre più
convinta,
nelle sue
congetture,
dell’esistenza
di una macchinazione
nei suoi confronti
(ed in questo
caso Cary
Grant sta
dall’altra
parte, nel
ruolo di chi
complotta):
dobbiamo vivere
la tensione
fino in fondo,
per potere
capire, per
poter dare
un volto alla
verità,
per poterci
liberare dai
pesi del passato.
Ed è
quello che
ritroviamo
nel film di
Anderson,
in grado di
mantenere
uno stato
continuo di
apprensione
dal primo
all’ultimo
minuto, aiutando
solo di tanto
lo spettatore
disseminando
qua e là
tracce nel
percorso di
Trevor Retznik,
senza però
dare la chiave
di soluzione
dell’enigma.
Come in un
thriller che
si rispetti,
d’altronde.(di
Michele
Canalini) |