L'UOMO SENZA SONNO
 
 

- Recensione -

 
Un uomo che vive da solo in uno sperduto paesino dell’immensa provincia americana, che lavora presso un’industria pesante come operaio e che non dorme da più di un anno. Quest’uomo è Trevor Retznik, è giovane, ha una barbetta bionda poco curata ed ha un fisico tutto pelle e ossa, quasi fosse appena uscito da un campo di concentramento. Quest’uomo è L’uomo senza sonno di Brad Anderson ed ha la faccia e soprattutto la corporatura dimagrita di trenta chili di Christian Bale, quasi irriconoscibile in questa veste da scheletro ambulante. Il nostro protagonista non riesce a dormire da più di un anno perché non ha ancora trovato la via d’uscita dalla sua prigionia mentale, dai suoi incubi e dalla sua mania persecutoria: si rende conto gradualmente di essere vittima di un complotto collettivo, come il Cary  
 
Grant di "Intrigo internazionale"; ma le trame in cui si è avviluppata la propria vita si reggono sui sottili e delicati fili dell’ossessione snervante, ai limiti dell’allucinazione psichica e del delirio conturbante de "La donna che visse due volte". Altri potrebbero essere i richiami hitchcockiani, ma tanto basta per rendere il debito che Brad Anderson deve al maestro inglese della suspense e per evidenziare la linea di continuità su cui si  
innesta Trevor Retznik, tormentato dall’inizio alla fine dal suo vortice di pensieri e ricordi, di immagini e flashback, verso quel delirio esistenziale che trova requie solo alla fine del proprio precipizio personale. Molto felice, del resto, si rivela la scelta del regista di filtrare solo alcuni colori della pellicola, consentendo così di operare una precisa scelta cromatica e di far emergere quell’opposizione tra chiaro e scuro che corrisponde psicologicamente all’animo turbato di Trevor (particolarmente suggestive le immagini all’interno della fabbrica, tra manovali circondati da enormi macchine, spaventose per i loro congegni, simili ai macchinari di una fabbrica di inizio secolo, il tutto avvolto in una tetra atmosfera di oppressione e indifferenza). E per non mancare alla lista delle citazioni, a far compagnia al nostro protagonista si presenta un amico che assomiglia alla brutta copia del colonnello Kurtz che Marlon Brando ha immortalato nei fotogrammi di Coppola; e questo personaggio tanto misterioso quanto angosciante (specie per quell’obbrobrio di chirurgia che gli ha appiccicato un alluce al posto del pollice di una mano!) diventa un’ombra ossessiva per il buon Trevor fino al catartico finale della vicenda (e qui ci fermiamo per non mancare di rispetto a chi deve ancora vedere il film). Lo stesso regista ci ha voluto mostrare di persona un altro dei suoi riferimenti culturali, quell’idiota dostoevskijano che lo stesso Trevor legge nei momenti di tregua della sua alienazione mentale: che egli sia la proiezione del principe “buono” o si identifichi altrimenti nell’alter ego del personaggio ansioso in cerca di una verità nei meandri della propria coscienza, comunque lo consideriamo, Trevor Retznik viva la propria condizione di estraniato dagli altri e dal mondo, in questo mondo in cui la presenza di Dio è ridotta allo zero. Trevor è distratto, in un incidente sul lavoro per causa sua un operaio perde un braccio, lentamente incomincia a inimicarsi i propri compagni in fabbrica, perde l’amicizia della prostituta-amica, unica forse con cui ha un rapporto vero, e poi tutti gli altri che gravitano intorno a lui. Ma allora è vero, egli è al centro di questo complotto, e i bigliettini che trova di volta in volta incollati sul proprio frigorifero di casa sono messaggi per spaventarlo, per farlo crollare psicologicamente; oppure la sua altro non è che una costruzione mentale, un’immaginazione continua frutto della paranoia? Non ci resta che comportarci come la protagonista (femminile) del Sospetto sempre di Hitchcock, sempre più convinta, nelle sue congetture, dell’esistenza di una macchinazione nei suoi confronti (ed in questo caso Cary Grant sta dall’altra parte, nel ruolo di chi complotta): dobbiamo vivere la tensione fino in fondo, per potere capire, per poter dare un volto alla verità, per poterci liberare dai pesi del passato. Ed è quello che ritroviamo nel film di Anderson, in grado di mantenere uno stato continuo di apprensione dal primo all’ultimo minuto, aiutando solo di tanto lo spettatore disseminando qua e là tracce nel percorso di Trevor Retznik, senza però dare la chiave di soluzione dell’enigma. Come in un thriller che si rispetti, d’altronde.(di Michele Canalini)
 
 
   
 

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