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Twentynine
Palms è un film vecchissimo,
atroce. Il suo regista Bruno
Dumont, dopo l'interessante
L'età inquieta
e il problematico e compiaciuto
L'umanità
rivela che il monumento
visivo che sta erigendo
alla sua poetica è
prematuro e con fondamenta
friabili come la sua concezione
del Cinema. I suoi sono
pretenziosi manufatti che
riflettono, con molti decenni
di ritardo, sulla durata
(per lo spettatore questa
elucubrazione si traduce
in una noia abissale), sulla
bassa definizione di personaggi
non rotondi e odiosi (i
suoi dialoghi - qui - sono
interferenze vocali, rumori
fatici, grugniti da orgasmo,
ripetizione di una dozzina
di vocaboli) e sulla relazione
non originale tra figure
e paesaggio (Wenders, Antonioni
e Ferreri - solo per citare
tre nomi - avrebbero sviluppato
questo incastro di corpi
e rocce, vuoto |
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geografico
e vuoto dell'anima in modo
meraviglioso). Si potrebbe
continuare nell'elenco delle
questioni su cui l'Autore
Dumont suppone di avere
una qualche verità
da scoprire ai danni dei
suoi attori e dei suoi spettatori.
Due deficienti (candidati,
dalla prima sequenza, al
disastro) si aggirano con
una certa dilatata casualità
nel deserto californiano,
lui è un fotografo
che sta facendo dei sopralluoghi
e lei è una donna
forse amata, certamente
desiderata con fellatio
in piscina da soffocamento,
amplessi sulle rocce da
body-landscape-art o nella
triste e desolata camera
di un motel. Sesso a morte,
repubblichetta dei sensi,
disamore fou. Tra litigi,
lezioni di guida, polvere,
risate, bronci da schiaffi,
coiti disperati e ridicoli,
un gelato o un piatto cinese,
esasperanti cambi d'umore,
pipì all'aria aperta,
passeggiate a piedi nudi
nel villaggio sperduto,
incontri con cani meno randagi
dei protagonisti, sgommate
premonitorie, urla violente,
automobili che vanno avanti
e indietro, passano i giorni
(molto più che un
tranquillo weekend di paura)
prima dell'annunciato tragico,
violento, scontato finale
di sangue. Il deserto californiano
è bello ed è
facile da inquadrare ma
questa non è certo
una scoperta epocale del
regista. I due attori, Katia
Golubeva e David
Wissak, sono sopraffatti
da due ruoli di maniera,
scritti molto male, e sono
entrambi abbandonati alla
loro isterica altalena.
Dumont sembra detestare
in maniera irreversibile
i suoi interpreti. Molte
inquadrature sono belle,
ma il merito è soltanto
della natura. |
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Enrico
Magrelli (Film TV) |
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