E’ la giungla
la vera protagonista
di Tropical Malady,
molto più dei
personaggi in carne
e ossa, semplici comparse
utilizzate per illustrare
una dimensione sconosciuta
e magica dell’esistenza.
Il film si scinde
nettamente in due
parti. Nella prima
si assiste alla delicata
storia d’amore
fra il soldato Keng
e il contadino Tong,
con il racconto delle
giornate serene e
monotone, della tranquilla
vita in campagna,
dei fuggevoli scambi
di pochi gesti affettuosi
fra i due ragazzii.
L’innamoramento
omosessuale è
vissuto dai due protagonisti
con spontaneità
e libertà,
senz’alcuna
inquietudine. Al regista
tailandese Weerasethakul
non interessa infatti
scavare nel tormento
di un’unione
ostacolata e difficile.
Ciò che intende
mettere a fuoco sembra
piuttosto essere un
mondo onirico, lontano
dalla vita moderna,
eppure in
stretto
contatto
con
la realtà
più
immediatamente
visibile.
Questo
diventa
evidente
nella
seconda
parte
del
film,
che
è
talmente
distaccata
e differente
da quanto
la precede,
nel
modo
di raccontare
e nell’atmosfera,
da risultare
spiazzante
per
lo spettatore.
La prima
impressione
è
di trovarsi
addirittura
dinanzi
a un
altro
film.
In realtà
la parte
iniziale
è
l’introduzione
al fulcro
dell'opera
di
Weerasethakul,
che inizia
solo dopo
metà
pellicola.
Il quieto
villaggio
in cui vive
Tong è
turbato dalle
misteriose
uccisioni
di alcuni
animali. E’
Keng a indagare.
Ma niente
può
prepararlo
a quello che
sta per scoprire.
Leggende antichissime
raccontano
di umani che
si trasformano
in bestie
terribili
e sfuggenti.
O forse lo
sono sempre
stati, e non
sono mai stati
veri uomini...
Come l’amato
Tong, che
una notte
si manifesta
reincarnato
in una stupenda,
enigmatica
tigre. Non
è dato
esplorare
più
a fondo il
segreto di
un’anima
che forse
non appartiene
a nessun corpo.
Forse Tong
non è
mai esistito,
forse non
era altro
che una dimora
precaria,
di passaggio,
per un’entità
al di là
del tempo
e dello spazio,
più
antica del
mondo stesso.
Il film tailandese
risente della
netta cesura
fra le due
sezioni di
cui è
composto per
non suscitare
una sensazione
di fastidio.
La seconda
parte è
decisamente
la più
affascinante,
intrisa com’è
di un’aura
arcana, rarefatta
e incantata,
ma intaccata
da un’eccessiva
lentezza.
Le reminiscenze
dei cinefili
andranno a
“Il
bacio della
pantera”
di Jacques
Tourneur,
per quanto
riguarda la
trasformazione
dell’oggetto
amato in una
fiera non
del tutto
consapevole
della propria
ferocia, per
l’idea
dell’amore
legato alla
distruzione
e per l’impossibilità
del desiderio
di realizzarsi.
Ma sono il
racconto popolare
e l’alone
di leggenda
a regalare
quel tocco
di fascino
ancestrale
che è
il principale
merito del
film, capace
di mostrare
una quotidianità
attraversata
da squarci
di universi
remoti, irrazionali
e oscuri.