Per chi lavora Fiodor,
ex generale dell’esercito
zarista, ora rifugiatosi
con la moglie artista,
di origina greca,
Arsinoè, nella
Parigi del 1936, all’alba
del grande trionfo
elettorale del Fronte
Popolare francese,
nel mezzo di un’Europa
in cui già
spirano, forti, minacciosi
venti di guerra e
mentre la Guerra civile
infuria nella vicina
Spagna franchista?
Per i cosiddetti “russi
bianchi”? Per
i sovietici? Per i
comunisti? O per il
partito nazional-socialista
di Hitler? Non lo
sappiamo noi e non
lo sa nemmeno la moglie,
e con precisione non
lo sapremo mai, né
noi né lei.
Ispirato ad un fatto
realmente accaduto
sulla cui verità
non è mai stata
fatta luce, noi come
lei non possiamo fare
altro che ascoltare
le parole di quest’uomo
mite, in camicia e
pullover, che nel
cucinotto di casa,
parla e parla, tranquillizza,
convince e nega, giura
e spergiura senza
che mai uno spiraglio
dall’esterno
si apra
a confermare
o meno
le sue
affermazioni.
Archiviata
e consegnata
ormai
alla
storia
la Nouvelle
vague
e i
“racconti
morali”
degli
anni
’60,
incentrati,
allora
come
ora,
sul
rapporto
tra
un uomo
e una
donna,
il vecchio
Rohmer
(85
anni)
continua
quel
processo
di sottrazione
sulle
potenzialità
del
mezzo
cinematografico
che
è
una
delle
principali
caratteristiche
di tutto
il suo
cinema,
In questa
rilettura
originale,
in
quanto
effettuata
“dall’interno”,
di una delle
pagine recenti
della storia
d’Europa
(aveva già
riflettuto
sulla rivoluzione
ne 'La nobildonna
e il duca'),
si possono
in sintesi
rintracciare
quasi tutti
i topoi della
sua poetica:
struttura
fortemente
letteraria,
azione e movimenti
di macchina
ridotti al
minimo per
consentire
la maggior
attenzione
possibile
sui dialoghi,
interpretazione
minimalista
degli attori,
stile realista
e geometrico
al servizio
di commedie
psicologiche
in cui notoriamente
si ha l’impressione
che non succeda
mai niente.
Una chiave
interpretativa,
forse interessante,
potrebbe essere
quella riferibile
al dentro
e al fuori,
vedere cioè
quanto il
film è
“dentro”
al film e
quanto il
film è
“fuori”,
provare in
altre parole
a constatare
in che misura
l’oggetto
del film ci
viene mostrato
e in che misura
invece ci
viene nascosto.
Lasciando
l’azione
fuori, fuori
dalla porta
(dell’appartamento)
e fuori-campo,
Rohmer arriva
qui a ridurre
la pellicola
a testo puramente
verbale, raggiungendo
un parossismo
che rischia
di confluire
in una sorta
di “autismo
filmico”,
nel senso
che il film,
verboso e
prolisso per
costituzione
ontologica
direi, continua
a parlarsi
addosso senza
accorgersi
che in sala
il pubblico
o se ne è
già
andato oppure
dorme da un
pezzo. Se
è vero
quanto asseriva
Hitchcock
che la suspance
è dovuta
ad un surplus
di informazioni
ricevute dallo
spettatore
rispetto ai
protagonisti
della vicenda
(tesi per
quanto mi
riguarda discutibile),
ecco allora
spiegato l’effetto
narcolettico
prodotto e
sparso a piene
mani da Triple
Agent, essendo
noi trattati
alla stregua
di impotenti
vittime ignorate
e tenute paradossalmente
all’oscuro
di tutto quanto
sta avvenendo
nel film.
Fuori dal
film, non
dentro il
film. Per
la visione
si consigliano
dosi massicce
di caffeina
da iniettare
via flebo
direttamente
in vena.