THE STATEMENT
 

recensione the statement

 
Forse non indimenticabile ma sicuramente molto solido e compatto l’ultimo film di Norman Jewison, regista poliedrico e convinto sperimentatore che, dopo la satira politica (“Arrivano i russi, arrivano i russi”), la biopic elegante (“Il caso Thomas Crowne”), il noir a tinte torbide (“La calda notte dell’ispettore Tibbs), senza dimenticare il recente “Hurricane”(1999), in questa pellicola si cimenta nel poliziesco a sfondo storico. Il sostrato è da ricercarsi in quel coacervo di situazioni caotiche che fu la repubblica di Vichy, porto franco d’intrigo e corruzione nella Francia della seconda guerra mondiale. Il contesto invece è la Provenza ai giorni nostri, teatro di fuga ansante per un ex-ufficiale filonazista (Michael Caine), patrocinatore di una carneficina nei giorni di fuoco della deportazione ebrea, ora redento, grazie anche all’aiuto della  
 
Chiesa, garante di protezione, ma condannato dopo quarant’anni a “crimini contro l’umanità” e ricercato, al tempo stesso , dalle istituzioni (Tilda Swinton e Jeremy Northam) e da una misteriosa congrega “massonica”. Senza troppe pretese i 114’ minuti del film portano a galla temi abbastanza stereotipati nella cultura contemporanea: la perpetuità dei ricordi, la fede spesso strumentalizzata ma forse unica via di redenzione e la corruzione degli organi istituzionali a tutti i livelli. Nell’amalgamare questi ingredienti, da parte di Jewison sembra mancare la volontà inquisitoria tanto nei confronti di Pierre Brossard (questo il nome del protagonista) quanto in quelli degli organi statali e paragovernativi, rimandando allo spettatore la discrezionalità di porsi verso determinate congiunture. Il tocco di classe di un regista navigato, però, è insito nell’oggettivismo con cui ci propina una materia che soltanto in apparenza può risultare aperta a svariate interpretazioni: oggettivare il soggettivo apparente è la vera invenzione di Jewison, il quale, nel trasportare su pellicola 35 mm temi scottanti quali il genocidio e il perdono, dosa il tutto con estrema delicatezza, evitando di valicare il sottile limite che intercorre tra fedeltà riprodotta e sfrontata spendibilità. Obiettività che, velata durante tutto l’intreccio filmico, emerge come vertice di un climax ascendente nel finale repentino e risolutore che, in poche sequenze, s’impone con interventismo “Provvidenziale”, lasciando consapevolmente basiti dinanzi ad un unico quesito: perché cercare il perdono o affannarsi nel tentativo di concederlo quando basterebbe attendere La Sentenza con il solo ausilio della fede? Forse troppo di parte ma estremamente verace.

(di Marco Visigalli)
 
 
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