SIN CITY
 
 

di Pietro Salvatori

 

di Alessandro Ruggieri

Nel traboccare di bianchi neri rossi (e gialli), chi si accinge ad approcciarsi a Sin City, si trova di fronte ad una messa in scena sicuramente innovativa. Un’attenta analisi della prima sequenza basterebbe ad inquadrare il mondo descritto nel film. Un incrocio di noir, pulp, amori senza futuro, bellezze mozzafiato e killer senza (o con troppo) cuore. Il tutto descritto con una meccanica che ricorda i grandi film d’un tempo ed insieme gli eroi perdenti di un certo cinema di trent’anni fa. L’omaggio palese ad uno stacco in negativo che ricorda tanto (l’inquietante) quiete prima della tempesta di un Nosferatu di tanti e tanti anni fa, dà quel tocco di cinico autocompiacimento che, appena partiti i titoli di testa, fa scorrere quel lieve brivido lungo la spina dorsale. L’ultimo lavoro di Robert Rodriguez attinge a piene mani dal fumetto. Anzi,   Presentato nella rosa dei candidati alla Palma d’Oro al festival di Cannes, il film ripropone con grande fedeltà e cura maniacale l’omonimo fumetto di Frank Miller. Club fumosi, periferie isolate e strade silenziose ma inquietanti sono l’ambientazione perfetta per le vicende dei personaggi sordidi e duri che si aggirano per la “Città del Peccato”. Poliziotti corrotti, eroi solitari e disinteressati, e l’immancabile dark lady si aggirano per i vicoli nebbiosi e poco raccomandabili della metropoli che tutto inghiotte. Preceduti dalla propria reputazione, i personaggi narrano il proprio malessere in terza persona, aggiungendo pathos all’azione, senza sacrificare il ritmo e la facilità di fruizione. A interpretare la difficile prova, una schiera di grandi attori, tutti a proprio agio con il thriller dall’aria pesante. Grazie al trucco e alla ricostruzione digi-
 
 
 
va oltre, fin ad arrivare ad affiancarsi alla regia proprio chi quel fumetto l’ ha ideato, Frank Miller. Il connubio Rodriguez/Miller ha ottenuto l’effetto desiderato. L’effetto che, con quella prima sequenza, girata a proprie spese, il regista di “Spy Kids” voleva trasmettere al titubante fumettista, ma che è bastata per tirarlo totalmente addentro al progetto. Sullo schermo vive quella (Ba)sin City che viene così sapientemente mente tratteggiata nelle pagine dei comics, fatta di vicoli bui e donne assassine, killer cannibali ed eroi perdenti. Dal punto di vista del mero impatto visivo Sin City è un prodotto notevolissimo. Le perplessità sorgono a livello di narrazione, di tenuta d’insieme. Il film è costruito su tre storie diverse, accomunate dall’ambiente cupo e poco più, tre storie di tre antieroi diversissimi tra di loro, latori di messaggi e rimandi simbolici lontani e profondi. Questa bella (sulla carta) differenziazione dei punti di vista su una realtà che tanto aveva da rispondere, se adeguatamente sollecitata, viene notevolmente appiattita da scelte registiche e narrative assolutamente piatte e banali. La mancanza di coralità è evidente, eppure si ricercano richiami furbetti con assonanze di luoghi e personaggi, assonanze elementarmente costruite che il film di certo non meritava. A fronte di un fumetto interamente basato sui dialoghi, poi, lo script si adagia per una buona metà sulla voce narrante. Operazione che ha una resa sulla carta, tutt’altra sullo schermo. Vero orrore da questo punto di vista è l’assoluta omogeneità di messa in scena dei tre microcosmi diversi, che adottano identiche soluzioni fotografiche e registiche, ma soprattutto che mantengono lo stesso stile e tono narrativo. In un film così disomogeneo, cantato a tre voci, un discontinuità narrativa sarebbe stata d’obbligo. Considerando che chi ci parla non è nemmeno una fantomatica “voce della città”, soluzione di compromesso che avrebbe giovato, ma i protagonisti in prima persona. Sin city, che ha visto anche la presenza di Tarantino come direttore di una sequenza, è dunque un gran film a metà. Visivamente sorprendente, costruito a partire da ombre, fisiche e spirituali, narrativamente mostra il fianco a una monotonia e una scarsezza di verve che ne minano la buona riuscita immaginifica. Un buon esperimento, un’ottima prova probabilmente, che alla fine dei conti, però, manca l’obiettivo.


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  tale dei connotati, un irriconoscibile Mickey Rourke si immedesima in Marv, energumeno tormentato e alla ricerca di verità. Volto segnato dagli anni e dalle “cattive compagnie”, l’ex galeotto non si ferma davanti a niente pur di scoprire chi ha ucciso la donna che ha amato, anche se solo per una notte. La scelta del cast sottolinea l’impegno e l’attenzione che hanno guidato l’intera trasposizione, come nel caso di Bruce Willis, che veste i panni del malinconico poliziotto tradito, impassibile anche davanti al più trucido spettacolo. E insieme all’inconfondibile Benicio Del Toro, troviamo vecchie e nuove conoscenze che si concedono in brevi ma efficaci apparizioni. Più di tutti il ritorno di Rutger Hauer, indimenticabile automa di “Blade Runner”, e la piacevole sorpresa di Elijah Wood, che da innocuo Hobbit nella trilogia de “Il Signore degli Anelli” si trasforma in un credibile folle omicida. Ma i titoli di testa accendono i riflettori su una delle collaborazioni più riuscite e sincere del cinema di oggi. La supervisione di Miller garantisce il rispetto al concept originale, di cui la pellicola ricrea una convincente sintesi con riferimento ai tre episodi più noti. Il supereroistico si amalgama con il poliziesco e Robert Rodriguez rinsalda il legame che ha dato origine a “Dal Tramonto all’Alba”, chiamando il suo amico Tarantino in veste di “guest director”. Il frutto di questo sensazionale team è più unitario e coerente che mai, certamente incline alle esagerazioni, ma dotato di una regia che toglie il respiro e inchioda alla poltrona. La cifra stilistica di Rodriguez si fonde al linguaggio delle tavole illustrate da Miller e prende vita in dialoghi dal cinico sense of humor che portano il marchio di Tarantino. Le espressioni deformate, le sagome stilizzate e le impossibili acrobazie amplificano movimenti, reazioni e battute degli introversi protagonisti, e a tratti sembra di assistere a un insolito mix di “animazione recitata”. Un gelido sguardo azzurro, una bocca rosso carne, un vestito elegantemente blu o la pelle gialla di un criminale sottoposto a esperimenti di chirurgia sottolineano l’importanza della comunicazione per immagini e degli stravolgimenti cui può essere sottoposta per aumentarne il potenziale. Onirico e avvincente, il film amalgama con fedeltà inquadrature, vignette ed episodi della graphic novel, immergendo lo spettatore in un’estetica impalpabile e illusoria.


(Alessandro Ruggieri è professore di sceneggiatura alla Scuola Romana dei Fumetti di Roma)
 
 
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