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Nel
traboccare di
bianchi neri
rossi (e gialli),
chi si accinge
ad approcciarsi
a Sin City,
si trova di
fronte ad una
messa in scena
sicuramente
innovativa.
Un’attenta
analisi della
prima sequenza
basterebbe ad
inquadrare il
mondo descritto
nel film. Un
incrocio di
noir, pulp,
amori senza
futuro, bellezze
mozzafiato e
killer senza
(o con troppo)
cuore. Il tutto
descritto con
una meccanica
che ricorda
i grandi film
d’un tempo
ed insieme gli
eroi perdenti
di un certo
cinema di trent’anni
fa. L’omaggio
palese ad uno
stacco in negativo
che ricorda
tanto (l’inquietante)
quiete prima
della tempesta
di un Nosferatu
di tanti e tanti
anni fa, dà
quel tocco di
cinico autocompiacimento
che, appena
partiti i titoli
di testa, fa
scorrere quel
lieve brivido
lungo la spina
dorsale. L’ultimo
lavoro di Robert
Rodriguez attinge
a piene mani
dal fumetto.
Anzi, |
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Presentato
nella rosa dei
candidati alla
Palma d’Oro
al festival
di Cannes, il
film ripropone
con grande fedeltà
e cura maniacale
l’omonimo
fumetto di Frank
Miller. Club
fumosi, periferie
isolate e strade
silenziose ma
inquietanti
sono l’ambientazione
perfetta per
le vicende dei
personaggi sordidi
e duri che si
aggirano per
la “Città
del Peccato”.
Poliziotti corrotti,
eroi solitari
e disinteressati,
e l’immancabile
dark lady si
aggirano per
i vicoli nebbiosi
e poco raccomandabili
della metropoli
che tutto inghiotte.
Preceduti dalla
propria reputazione,
i personaggi
narrano il proprio
malessere in
terza persona,
aggiungendo
pathos all’azione,
senza sacrificare
il ritmo e la
facilità
di fruizione.
A interpretare
la difficile
prova, una schiera
di grandi attori,
tutti a proprio
agio con il
thriller dall’aria
pesante. Grazie
al trucco e
alla ricostruzione
digi- |
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va
oltre, fin ad
arrivare ad
affiancarsi
alla regia proprio
chi quel fumetto
l’ ha
ideato, Frank
Miller. Il connubio
Rodriguez/Miller
ha ottenuto
l’effetto
desiderato.
L’effetto
che, con quella
prima sequenza,
girata a proprie
spese, il regista
di “Spy
Kids”
voleva trasmettere
al titubante
fumettista,
ma che è
bastata per
tirarlo totalmente
addentro al
progetto. Sullo
schermo vive
quella (Ba)sin
City che viene
così
sapientemente
mente tratteggiata
nelle pagine
dei comics,
fatta di vicoli
bui e donne
assassine, killer
cannibali ed
eroi perdenti.
Dal punto di
vista del mero
impatto visivo
Sin City è
un prodotto
notevolissimo.
Le perplessità
sorgono a livello
di narrazione,
di tenuta d’insieme.
Il film è
costruito su
tre storie diverse,
accomunate dall’ambiente
cupo e poco
più,
tre storie di
tre antieroi
diversissimi
tra di loro,
latori di messaggi
e rimandi simbolici
lontani e profondi.
Questa bella
(sulla carta)
differenziazione
dei punti di
vista su una
realtà
che tanto aveva
da rispondere,
se adeguatamente
sollecitata,
viene notevolmente
appiattita da
scelte registiche
e narrative
assolutamente
piatte e banali.
La mancanza
di coralità
è evidente,
eppure si ricercano
richiami furbetti
con assonanze
di luoghi e
personaggi,
assonanze elementarmente
costruite che
il film di certo
non meritava.
A fronte di
un fumetto interamente
basato sui dialoghi,
poi, lo script
si adagia per
una buona metà
sulla voce narrante.
Operazione che
ha una resa
sulla carta,
tutt’altra
sullo schermo.
Vero orrore
da questo punto
di vista è
l’assoluta
omogeneità
di messa in
scena dei tre
microcosmi diversi,
che adottano
identiche soluzioni
fotografiche
e registiche,
ma soprattutto
che mantengono
lo stesso stile
e tono narrativo.
In un film così
disomogeneo,
cantato a tre
voci, un discontinuità
narrativa sarebbe
stata d’obbligo.
Considerando
che chi ci parla
non è
nemmeno una
fantomatica
“voce
della città”,
soluzione di
compromesso
che avrebbe
giovato, ma
i protagonisti
in prima persona.
Sin city, che
ha visto anche
la presenza
di Tarantino
come direttore
di una sequenza,
è dunque
un gran film
a metà.
Visivamente
sorprendente,
costruito a
partire da ombre,
fisiche e spirituali,
narrativamente
mostra il fianco
a una monotonia
e una scarsezza
di verve che
ne minano la
buona riuscita
immaginifica.
Un buon esperimento,
un’ottima
prova probabilmente,
che alla fine
dei conti, però,
manca l’obiettivo.
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recensione! |
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tale
dei connotati,
un irriconoscibile
Mickey Rourke
si immedesima
in Marv, energumeno
tormentato e
alla ricerca
di verità.
Volto segnato
dagli anni e
dalle “cattive
compagnie”,
l’ex galeotto
non si ferma
davanti a niente
pur di scoprire
chi ha ucciso
la donna che
ha amato, anche
se solo per
una notte. La
scelta del cast
sottolinea l’impegno
e l’attenzione
che hanno guidato
l’intera
trasposizione,
come nel caso
di Bruce Willis,
che veste i
panni del malinconico
poliziotto tradito,
impassibile
anche davanti
al più
trucido spettacolo.
E insieme all’inconfondibile
Benicio Del
Toro, troviamo
vecchie e nuove
conoscenze che
si concedono
in brevi ma
efficaci apparizioni.
Più di
tutti il ritorno
di Rutger Hauer,
indimenticabile
automa di “Blade
Runner”,
e la piacevole
sorpresa di
Elijah Wood,
che da innocuo
Hobbit nella
trilogia de
“Il Signore
degli Anelli”
si trasforma
in un credibile
folle omicida.
Ma i titoli
di testa accendono
i riflettori
su una delle
collaborazioni
più riuscite
e sincere del
cinema di oggi.
La supervisione
di Miller garantisce
il rispetto
al concept originale,
di cui la pellicola
ricrea una convincente
sintesi con
riferimento
ai tre episodi
più noti.
Il supereroistico
si amalgama
con il poliziesco
e Robert Rodriguez
rinsalda il
legame che ha
dato origine
a “Dal
Tramonto all’Alba”,
chiamando il
suo amico Tarantino
in veste di
“guest
director”.
Il frutto di
questo sensazionale
team è
più unitario
e coerente che
mai, certamente
incline alle
esagerazioni,
ma dotato di
una regia che
toglie il respiro
e inchioda alla
poltrona. La
cifra stilistica
di Rodriguez
si fonde al
linguaggio delle
tavole illustrate
da Miller e
prende vita
in dialoghi
dal cinico sense
of humor che
portano il marchio
di Tarantino.
Le espressioni
deformate, le
sagome stilizzate
e le impossibili
acrobazie amplificano
movimenti, reazioni
e battute degli
introversi protagonisti,
e a tratti sembra
di assistere
a un insolito
mix di “animazione
recitata”.
Un gelido sguardo
azzurro, una
bocca rosso
carne, un vestito
elegantemente
blu o la pelle
gialla di un
criminale sottoposto
a esperimenti
di chirurgia
sottolineano
l’importanza
della comunicazione
per immagini
e degli stravolgimenti
cui può
essere sottoposta
per aumentarne
il potenziale.
Onirico e avvincente,
il film amalgama
con fedeltà
inquadrature,
vignette ed
episodi della
graphic novel,
immergendo lo
spettatore in
un’estetica
impalpabile
e illusoria.
(Alessandro
Ruggieri è
professore di
sceneggiatura
alla Scuola
Romana dei Fumetti
di Roma) |
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